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La soluzione all’indovinello di Santoro: chi rema contro il Partito Democratico?

Ieri sera Michele Santoro, all’inizio della sua trasmissione Annozero, ha posto un indovinello, che in sintesi dice: cosa c’è dietro l’elezione di Riccardo Villari alla presidenza della Commissione parlamentare sulla Vigilanza dei servizi radiotelevisivi ((la commissione, infatti, non deve occuparsi solo della RAI, ma anche, fra le altre, di Mediaset))? Glielo chiede Veltroni, glielo hanno gliesto i presidenti delle Camere, glielo ha chiesto Berlusconi, diretto interessato in quanto proprietario di metà del mercato televisivo di cui la Commissione che Villari presiede si deve occupare, dunque chi è che vuole scuotere il Partito Democratico per far notare agli italiani che Veltroni il partito non ce l’ha più in mano?

Santoro ha lasciato intuire la soluzione, ma non l’ha esplicitata. Io però voglio fare un percorso diverso per arrivare a una conclusione simile, ma non uguale. Il resto lo farà l’inciucio.

Il senatore Villari, come certo saprete, è stato eletto presidente della commissione grazie ai voti del centrodestra più due voti dell’opposizione, rimasti ovviamente ignoti. Villari ha annunciato oggi di non volersi dimettere.

Uno dei componenti della Commissione si chiama Nicola Latorre. Questo signore, del Partito Democratico, è balzato agli onori delle cronache per una faccenda che definire scandalosa è dire poco: egli, infatti, pur essendo un politico dell’opposizione non ha esitato a venire in soccorso di Italo Bocchino ((anche su Bocchino ci sarebbe da dire qualcosa di background: rilevò il giornale diretto da Levi, giusto per ricordare che i legami fra politici e affaristi sono trasversali e non badano al colore)), il quale le stava prendendo da Massimo Donadi, dell’Italia dei Valori.

Ricapitoliamo la storia: Bocchino, Donadi e Latorre erano ospiti della trasmissione Omnibus su La7, e si parlava di Commissione di Vigilanza. Donadi stava attaccando Bocchino, ricordandogli che il Presidente della Commissione doveva essere indicato dall’opposizione, e doveva essere Leoluca Orlando, dell’Italia dei Valori. Bocchino non sapeva cosa rispondere. A quel punto accade l’incredibile: Latorre prende il giornale che Bocchino aveva davanti, scribacchia qualcosa e lo rimette davanti a Bocchino, il quale legge e si illumina. Latorre, come è stato poi dimostrato, su quel biglietto ha scritto: «Io non posso dirlo, ma il precedente della Corte [Costituzionale]? Pecorella?» ((L’avvocato di Berlusconi cui è stato negato l’accesso alla Consulta)). E Bocchino, subito dopo, risponde secondo le indicazioni di Latorre. Allora viene da chiedersi, Latorre fa parte dell’opposizione, ma opposizione a chi?

Ma chi è Latorre, che sembra remare contro le scelte fatte dal segretario del suo partito, Veltroni? Latorre è definito un “dalemiano di ferro”, ovvero uno dei “migliori amici” di Massimo D’Alema. Latorre era già venuto a conoscenza dell’opinione pubblica per una faccenda torbida, ovvero quella sulla scalata Unipol, in piena Bancopoli. Fra le intercettazioni sul caso, infatti, Latorre cadde nella rete quando telefonò a Stefano Ricucci, uno dei furbetti del quartierino, con parole che possiamo definire amichevoli.

Nella stessa rete caddero, a loro volta, anche Piero Fassino e soprattutto Massimo D’Alema. Sia Latorre che D’Alema sono stati indagati, ma i Parlamenti italiano ed europeo hanno negato l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni. Lo scudo parlamentare colpisce ancora. ((Qua ci sarebbe da dire una cosa: fra i furbetti del quartierino c’era pure Fiorani, a capo di Banca Popolare Italiana, già Banca Popolare di Lodi, che incorporò la Banca Rasini, banca presso cui lavorava il padre di Berlusconi e utilizzata, fra le altre, da mafiosi (come Riina, Provenzano e Mangano) e da Berlusconi e vari suoi prestanome, nel vorticoso, copioso e misterioso giro di denari che sta alla base della nascita della Fininvest. Ma questo è un altro discorso, troppo ampio per essere affrontato in una nota))

L’attenzione si sposta quindi su Minimo D’Alema: il nostro baffuto signore è forse uno dei meno comunisti fra i post-comunisti. Ha due barche, una di 18 metri, l’Icarus II. Durante Tangentopoli definì il pool di Mani Pulite, di cui faceva parte, guarda un po’, Antonio Di Pietro, «il soviet di Milano».

D’Alema ha sempre avuto un nemico, e sapete come si chiama? Si chiama Walter Veltroni. I due si scontrarono la prima volta nel 1994 per la segreteria del PDS: Veltroni fu scelto dalla maggioranza dei 12mila dirigenti del PDS che parteciparono alla votazione, ma in seguito il Direttivo del PDS (480 persone) decise di eleggere D’Alema. La vittoria della democrazia, insomma.

Nel 1997 continua l’ascesa di D’Alema, che diventa presidente della Bicamerale per le riforme. Qui D’Alema commette l’errore della sua vita (e della nostra): si rivolge a Silvio Berlusconi, legittimandolo capo dell’opposizione in un momento in cui la leadership di Berlusconi stava crollando. Latorre sta a Bocchino, come D’Alema sta a Berlusconi. Questi accetta D’Alema come presidente della Bicamerale. Non contento, D’Alema con la Bicamerale offre due regali a Berlusconi: la prima è la garanzia per le tv Mediaset (all’epoca stava nascendo il caso dell’abusivismo di Rete 4 dichiarato dalla Corte Costituzionale ((e la Bicamerale doveva riformare la Costituzione))), la seconda è la scellerata controriforma della giustizia, non prevista dai lavori della Bicamerale. Incassato tutto questo, Berlusconi si alza e se ne va, e D’Alema rimane come un allocco. Ma subito dopo arriva l’occasione della sua vita, aiutato, guarda caso, dai centristi di Cossiga e Mastella (cui poco dopo passerà proprio Villari, all’epoca agli inizi della carriera politica). Il presidente del consiglio Prodi (e il suo vice, che, guarda caso, è Veltroni) cadono, e D’Alema prende il suo posto. Veltroni, che fa parte dell’ala sconfitta, si ritira, e nel 2000 andrà a fare il sindaco di Roma.

Nel 1998 D’Alema diventa presidente del consiglio e dopo due governi, di cui non voglio neppure parlare per pietà, è costretto a lasciare. Pochi anni dopo decide di emigrare, e va al Parlamento europeo: per un’altra, assurda coincidenza, nello stesso momento in Italia ritorna Romano Prodi, che fonda l’Unione, vince le elezioni e fonda il Partito Democratico. E chi viene eletto segretario del Partito? Walter Veltroni, sempre lui, indicato da Prodi. D’Alema non si candida neppure.

E arriviamo ai giorni nostri. D’Alema ha accumulato talmente tante figuracce che si sarebbe dovuto ritirare in Siberia. Lo ha fatto? Assolutamente no. Veltroni, poi, lancia la TV YouDem. D’Alema, di tutta risposta, lancia RED, la televisione del movimento omonimo, (Riformisti e Democratici – ReD). Si fanno concorrenza da soli, insomma. D’Alema presiede poi l’associazione Italianieuropei, fondata, tra gli altri, insieme a Latorre. Tutti movimenti interni al Partito Democratico, ma non delle correnti dichiarate. Lo scopo dei movimenti è proporre nuovi dirigenti per il PD, come ha detto il deputato Cuperlo, altro dalemiano. Al che mi chiedo: ma un gruppo dirigente, il PD, non ce l’ha? E non ha come capo Veltroni?

Dell'”antipatia” D’Alema-Veltroni avevo già parlato, per esempio, a proposito delle Europee, con Veltroni timoroso per le preferenze, perché favorirebbero il nemico di sempre, il nostro Massimo D’Alema, in un momento di grande difficoltà per Veltroni. D’Alema intanto ripropone le prove tecniche d’inciucio, riproponendo ancora la Bicamerale insieme a Fini (il nostro baffo non vuole perdere né il pelo né il vizio).

Oggi Villari, sbugiardando Veltroni, annuncia di non volersi dimettere. Chi favorisce questa magra figura fatta da Veltroni, che non sembra più avere in mano il suo partito?

Arrivati a questo punto una risposta all’indovinello di Santoro potrebbe essere stata data, ed è una risposta biforcuta. Chi rema contro Veltroni per destabilizzare il Partito Democratico? Due facce della stessa medaglia, una ovvia, l’altra all’ombra.

Conclusione.

Sulla situazione del PD ci sarebbero da dire tante altre cose. Io mi limito a dirne un paio: io sono di quelli che darebbe a Veltroni un aut aut. O decidi di fare opposizione o te ne vai. In verità vorrei dirgli semplicemente di andarsene e dare spazio al nuovo (dopotutto quando si perde un’elezione si sparisce per sempre, ma qua l’ultimo ad essere sparito dopo aver perso è stato Achille Occhetto nel 1994, un’altra delle preistoriche novità della politica italiana!), ma temo che il dopo-Veltroni possa essere proprio D’Alema, altro che il nuovo al potere. A D’Alema preferisco di gran lunga un Veltroni senza sapore, per questo auspico che il Partito Democratico decida di voltare pagina, e buttare via tutto il vecchio, e sul serio. Sia Veltroni che D’Alema fanno politica da decenni, ed è ora di dire basta, di lasciare il posto ai nuovi ((Rimarrò inascoltato, ovviamente: oggi ci sono le primarie del Partito Democratico giovanile, e il candidato della nomenklatura è ovviamente Raciti, il segretario uscente della Sinistra giovanile)).

A Veltroni chiederei di fare come i democratici americani e favorire l’ascesa di una vera novità, di un vero Obama italiano (bianco o nero, è uguale).

A D’Alema, invece, più semplicemente, chiederei, come fece già Moretti, di dire, per una volta, qualcosa di sinistra. Sarebbe già tanto per il comunista con una barca di diciotto metri. Il cambio del gruppo dirigente magari rimandiamolo a quando avrà deciso da che parte stare (a parte la propria).

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