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L’Italia è forse un regime autoritario?

A sentire qualcuno dell’opposizione, la risposta alla domanda di cui nel titolo parrebbe essere positiva. La risposta, da parte mia, è no. Se però mi si chiede se l’Italia sia un regime democratico, la mia risposta è, ancora, no.

Cerchiamo di fare un’analisi un po’ più approfondita, pur con tutte le critiche che si possono fare e che spero si faranno: partiamo da una definizione di regime autoritario, ovvero quella più accettata di Juan Linz.

Autoritario è un sistema politico con pluralismo politico limitato e non responsabile, senza una elaborata ideologia guida, ma con mentalità caratteristiche, senza mobilitazione politica estesa o intensa, tranne che in alcuni momenti del suo sviluppo, e con un leader o talora un piccolo gruppo che esercita il potere entro limiti formalmente mal definiti ma in realtà abbastanza prevedibili.

Va detto che questa definizione è molto generale, che serve ad identificare un genere: al suo interno, infatti, possono esservi forti diversificazioni, pur essendovi il medesimo sfondo.

Vediamo in che misura sussistono le cinque dimensioni rilevanti di un regime autoritario applicato all’Italia:

  1. mobilitazione: l’Italia di Silvio Berlusconi non si caratterizza per un alto grado di mobilitazione; al di fuori delle manifestazioni costruite ad hoc per omaggiare il capo, come il primo congresso del Popolo della libertà – guarda caso momento di sviluppo-, le masse non sono mobilitate. I diritti civili, politici e sociali sono, almeno formalmente, garantiti, ma l’esercizio effettivo di tali diritti è ostruito da un’informazione visibilmente controllata, e negli ultimi tempi anche dall’intimidazione, mentre le strutture delle opposizioni sono deboli e allo sbando;
  2. pluralismo limitato: questa dimensione attiene alla sfera della responsabilità. Laddove il pluralismo è limitato, notiamo l’esistenza di pochi attori veramente rilevanti nell’arena politica, che sistemano le questioni di responsabilità al massimo inter eos. In una liberal-democrazia di massa, la questione della responsabilità è affidata al popolo, mediante elezioni libere, competitive, corrette. Questo non avviene in Italia, basti pensare che una delle cause del declino italiano (Berlusconi, nei suoi quattro fallimentari governi) sia appunto arrivato al quarto mandato. Vuoi anche per l’incapacità dell’opposizione, gli italiani non riescono ad attribuire correttamente le responsabilità, e ciò è dovuto proprio alla mancanza di pluralismo (riducendo ai minimi termini la questione, da un lato abbiamo Berlusconi, dall’altro degli incapaci).
  3. mentalità caratteristiche: alzi la mano chi ha capito l’ideologia alla base del berlusconismo.  Se qualcuno l’ha capito, ce lo spieghi: il berlusconismo non sembra avere alcuna ideologia (men che meno quella liberale). Ha, al massimo, mentalità caratteristiche, ovvero una serie di valori (o disvalori) che ne guidano l’agire. Piuttosto forte il populismo, oggi non più solo berlusconiano, ma pure tremontiano, brunettiano, sacconiano, ano, ano;
  4. leader o piccolo gruppo: credo che spiegare questo punto sia superfluo;
  5. limiti formalmente mal definiti: qui c’è la parte più divertente. I limiti all’esercizio del governo, formalmente, ci sono (la Costituzione). Il problema è che vengono regolarmente calpestati. Due esempi: la legge è uguale per tutti? No, ci sono quattro tizi che per legge sono più uguali degli altri; ancora, il potere legislativo è nelle mani del parlamento? Formalmente sì, nella pratica no, visto che questo governo tiene sotto scacco il Parlamento a colpi di voti di fiducia. Quanto alla prevedibilità, beh… notiamo che ogni volta che esce fuori un processo a carico del capo o dei suoi seguaci, puntualmente esce fuori una leggina da hoc che cancella il reato, abbatte la prescrizione, rende immuni, eccetera. Esempio solo per rimanere nel campo della giustizia (vogliamo parlare delle televisioni o delle tasse?).

Vale la pena, qui, di sottolineare alcuni aspetti di un regime autoritario rimasto unico nel suo genere: il regime fascista. Esso era caratterizzato dalla presenza di un leader carismatico legato ad un partito con tendenze totalitarie; ha usato, nel corso della sua instaurazione, vari attori sociali, come la Chiesa (che era un po’ cooperante un po’ conflittuale), la monarchia, l’esercito, la grande industria e la classe media. Il regime si caratterizzava per spunti nazionalisti che si traducevano in una politica estera aggressiva; per l’antiliberalismo; per l’antiparlamentarismo; per l’anticomunismo; per l’anticlericalismo; per l’anticapitalismo. Salvo poi sostanzialmente fare nulla se non rafforzare il proprio potere (il corporativismo, in vent’anni, non venne mai alla luce; la Camera dei Fasci e delle Corporazioni nacque solo al tramonto del regime stesso). Non so voi, ma io ritrovo diverse analogie con l’Italia berlusconiana, oltre, ovviamente, a qualche differenza.

Dunque, questo basta a definire l’Italia un regime autoritario? Dal mio punto di vista no: l’Italia ha tratti autoritari, ma non è (ancora) un regime autoritario.

Chiediamoci, allora, se l’Italia è una democrazia.

Una democrazia si caratterizza per quattro elementi fondamentali:

  1. suffragio universale maschile e femminile;
  2. elezioni libere, competitive, ricorrenti, corrette;
  3. pluralità di partiti;
  4. diverse e alternative fonti d’informazione.

Questa è la definizione minima di democrazia: l’assenza di uno o più di questi fattori mette in crisi la presenza dell’Italia all’interno del genus democratico. Vediamoli uno per uno:

  1. suffragio universale maschile e femminile: è indubbio che questa dimensione sia presente;
  2. elezioni libere, competitive, ricorrenti, corrette: le elezioni sono libere (se diamo un’interpretazione estensiva a questo aggettivo) e ricorrenti (anche troppo), ma non sono competitive, né corrette (si guardi il quarto punto);
  3. pluralità di partiti: ne abbiamo anche troppi, anche se quelli rilevanti, ovvero oggi in Parlamento, sono molto pochi, almeno relativamente al passato;
  4. diverse e alternative fonti d’informazione: qui c’è il problema. Abbiamo un presidente del Consiglio che possiede tre televisioni, che ne controlla altre due ed è sulla strada per prendersi pure la terza (se è vero che si vogliono piazzare Gianni Minoli ed Enrico Mentana su RaiTre). Una settima televisione, la cui indipendenza è già piuttosto sbiadita, si inchinerà al premier, poiché il suo proprietario (alias Telecom Italia), non può certo alienarsi i rapporti con il gruppo di potere (La7, infatti, potrebbe segnalare un bel po’ di fattacci che la danneggiano, ma non lo fa per non essere ulteriormente danneggiata, visto che l’autorità indipendente, visto che ha trovato in Google il monopolista della pubblicità e non in Mediaset e compagni, potrebbe non essere poi così indipendente); l’ottava televisione (SKY) ha avuto tasse raddoppiate, si è vista sottrarre la RAI, la quale è stata poi costretta ad allearsi con il proprio concorrente (Mediaset) per creare una propria piattaforma satellitare (TivuSat) in un gioco in cui Silvio vince e gli italiani perdono. In Italia oltre il 60% degli italiani si informa SOLO con la televisione, con punte di quasi l’80% fra i pensionati e le casalinghe (bacino elettorale del centrodestra, guarda caso). Gli altri diversificano, ma solo un decimo compra regolarmente i giornali. In altre parole, si può dire che per la stragrandissima maggioranza degli italiani la televisione è il principale mezzo di informazione. Ma se la televisione è praticamente tutta in mano a Silvio Berlusconi, vuol dire che questa quarto pilastro della democrazia è veramente debole.

A causa della debolezza dei pilastri 2 e 4, l’Italia non appare essere un regime democratico secondo la definizione data (che poi è la definizione minima fornita dalla scienza politica – ce ne sono altre: alcune non cambiano in sostanza il discorso appena fatto, mentre le altre sono definizioni meramente “procedurali”, secondo le quali l’Italia è un regime democratico perché la Costituzione (democratica) e le sue procedure (democratiche) sono formalmente rispettate, ma pure queste definizioni vengono incrinate se pensiamo allo svuotamento dello spirito costituzionale, quanto, nella pratica, a tutte le sentenze della Corte Costituzionale scavalcate – ricordate Europa 7).

L’Italia, tuttavia, non è neppure pienamente un regime autoritario.

In conclusione di questa veloce riflessione, sono portato a dedurre che l’Italia si trovi in un momento di crisi democratica, più precisamente di crisi nella democrazia, poiché assistiamo al cattivo funzionamento di alcune strutture dello Stato (Parlamento, magistratura), oltre che un progressivo distacco della Piazza dal Palazzo (l’esistenza stessa di Beppe Grillo e dei grillini, e soprattutto la loro crescita, ne è un sintomo, solo per fare un esempio).

Notiamo, inoltre, la sostanziale scomparsa del centro politico: l’accordo fra le parti su problemi sostantivi è estremamente raro (addirittura i problemi sostantivi sono lasciati in secondo piano rispetto agli scandali sessuali e altre facezie simili); ancora, in questi giorni stiamo assistendo ad una escalation di violenza verbale (citazioni in giudizio, attacchi all’Europa, attacchi degli house organ contro i direttori dei giornali nemici) e non (ricordate questo?) finora inaudita.

Tutti questi sono sintomi di una profonda crisi democratica (e ve ne sarebbero molti altri). Si potrebbe dire che l’Italia si trova in uno stato intermedio fra la democrazia e l’autoritarismo. Se il genus democratico non viene abbandonato, è perché questo non è né necessario né auspicabile: la democrazia resta un valore fondamentale per la stragrande maggioranza degli italiani e soprattutto per la posizione nel campo internazionale (anche se da questo punto di vista gli altri Paesi europei, non addormentati dalle tv del padrone, già sanno che la democrazia è in crisi in Italia, se pensiamo alle dichiarazioni di Martin Schultz e altri – che dicono, in pratica, che Berlusconi può essere un cattivo esempio per altri Paesi del mondo – e al fatto che i nostri vicini non vedono di buon occhio le amicizie strettissime che “vantiamo” con leader certamente non democratici come Vladimir Putin e Muammar Gheddafi, a cominciare dagli USA), e per questo è necessario mantenere l’apparenza (senza contare che, non svenite dalla sorpresa, anche all’interno del PdL c’è gente che è davvero innamorata della democrazia).

La teoria ha elaborato una definizione di un tipo di autoritarismo (o meglio, un regime di transizione fra autoritarismo e democrazia) che ben si adegua, a mio avviso, all’Italia dei giorni nostri. È quella della democrazia elettorale, che Cotta, Della Porta e Verzichelli definiscono come segue:

Se […] il procedimento elettorale è corretto, ma i diritti civili non sono ben garantiti, se in particolare, la stessa informazione è condizionata da situazioni di monopolio con la conseguenza di escludere parti della popolazione  dall’uso effettivo dei propri diritti, se eventualmente non vi è un’effettiva opposizione partitica e in realtà un solo partito [ndTooby: vogliamo dire “coalizione”?] domina la scena elettorale e, più in generale, quella politica, allora si potrà parlare di democrazia elettorale.

Sembra un calzino messo sopra lo stivale.

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