[Pillole di storia italiana] La svolta a sinistra e il miracolo economico

La scorsa settimana siamo fermati alla fine della seconda legislatura, quando le elezioni del 1958 replicarono quelle del 1953, ovvero non diedero al Paese una maggioranza stabile. Anche la terza legislatura si apre con il sistema alla travagliata ricerca di un nuovo equilibrio.

L’instabilità della DC. A seguito delle elezioni del 1958, la Democrazia Cristiana, ancora una volta primo partito, fu costretta a cercare delle alleanze. Fu Amintore Fanfani, cui era stato affidato l’incarico di formare il governo, a svolgere questa ricerca: essendo un uomo della sinistra DC fu per lui ovvio rivolgersi al Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI). Ma la debolezza di questa coalizione, che non raggiungeva la metà delle preferenze, fu ovvia sin dal principio: gran parte della DC non vedeva di buon occhio questo spostamento del baricentro politico verso la sinistra, e il governo Fanfani fu bersagliato dal fenomeno dei franchi tiratori, ovvero di coloro i quali, pur essendo nella maggioranza di governo, votavano contro le proposte dell’esecutivo. Questa tendenza fu esasperata anche dal fatto che Fanfani, oltre che presidente del Consiglio, era anche segretario della DC e ministro degli Esteri (con evidenti rassomiglianze con il cumulo di cariche che assunse Mussolini). Per questi motivi Fanfani lasciò nel febbraio del 1959, per lasciare il posto ad Antonio Segni, che tentò di governare con i soli voti della DC, approfittando della spaccatura sempre più intensa fra il Partito Comunista (PCI) e quello Socialista (PSI).

Le ragioni della spaccatura a sinistra. Nel 1956, infatti, le sinistre si divisero definitivamente: in quell’anno, infatti, gli ungheresi tentarono di ribellarsi al dominio sovietico, ma l’URSS intervenne reprimendo la rivoluzione nel sangue. Palmiro Togliatti, segretario del PCI, decise di non condannare quell’atto, ritenendo anzi di doverlo giustificare come la repressione di un tentativo dell’Occidente di fermare la rivoluzione comunista. Pietro Nenni, segretario del PSI, ritenne invece di dovere condannare questo atto di repressione, e questa divergenza segnò la spaccatura definitiva fra le sinistre, con il PCI visto sempre più estremista, contro un PSI che, al contrario, si avvicinava all’area centrista di governo.

Anche il centro si spacca. L’entrata del PSI in quest’area fu favorita anche dalla morte di papa Pio XII e dall’avvento di Giovanni XXIII nel 1958, che avviò una profonda riforma della Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II, che rese meno estrema la politica estera vaticana. Tuttavia, quando Segni ottenne l’incarico, il Concilio era ancora agli inizi, e il presidente del Consiglio non ritenne necessario cercare alleati di governo, pensando di potere approfittare della spaccatura fra le sinistre. Tuttavia anche la DC non appariva unita: i centristi della DC (fra cui proprio Segni) rovesciarono Fanfani ed elessero Aldo Moro alla segreteria. Ma la situazione non si stabilizzò e, impossibilitato a governare con una maggioranza tanto ballerina, il governo Segni rassegnò le dimissioni nel 1960.

Il governo Tambroni e la reazione antifascista. Incaricato di formare il governo fu Fernando Tambroni, il quale, però, tentò ancora una volta di non allearsi con la sinistra: anche se la Chiesa cattolica stava ammorbidendo le proprie posizioni, rimanevano ancora i grandi gruppi economici a non convincere tutti di una ormai ovvia quanto necessaria svolta a sinistra. Per questo Tambroni decise di cercare l’appoggio a destra, presso i neofascisti del Movimento Sociale Italiano. Una scelta simile non poteva mancare di scatenare polemiche, visto che l’antifascismo non era il pane quotidiano delle sole sinistre, ma anche della DC. Nelle intenzioni del Presidente della Repubblica Gronchi il governo Tambroni avrebbe dovuto gestire le Olimpiadi di Roma, che si tenevano quell’anno, e per questo motivo Tambroni, nel chiedere la fiducia alla Camera, fece appello al patriottismo dei deputati. La fiducia fu ottenuta per soli sette voti e questo rese determinanti i ventiquattro voti della destra. Esplode dunque una profonda crisi politica, anche interna al governo, e Tambroni decise di rassegnare le dimissioni, che però il presidente Gronchi respinse. Tambroni tentò di mettersi al lavoro, ma il MSI chiese subito una contropartita per l’appoggio: tenere il proprio congresso a Genova, città storicamente “rossa” e medaglia d’oro della Resistenza, e quindi fortemente antifascista. Questa provocazione causò violente proteste da parte non solo delle sinistre, ma anche di tutti i partiti antifascisti, ed ebbero fra i protagonisti Sandro Pertini, che si oppose con ardore. Le proteste si estesero ben presto in tutta Italia, e provocarono la morte di nove persone. Tambroni fu costretto a fermare il congresso del MSI, che per protesta votò contro la legge di bilancio. Persa la maggioranza, Tambroni si dimise: Gronchi non gli riaffidò l’incarico, come egli sperava.

Il ritorno di Fanfani. Gronchi assegnò l’incarico di formare il governo a Fanfani. Questa scelta soddisfò parte delle sinistre e i monarchici, che decisero autonomamente di astenersi. Per questo motivo il governo monocolore DC di Fanfani godrà di una relativa stabilità. Questo periodo è fondamentale: con Fanfani premier, Moro segretario della DC e Segni che verrà eletto Presidente della Repubblica il 6 maggio 1962, la DC riacquisisce stabilità e può trovare un nuovo indirizzo politico. La svolta a sinistra è ormai a un passo e sarà sancita formalmente dal congresso DC del 1962, che approverà la collaborazione con il PSI. Grazie all’ampia maggioranza congressuale, Fanfani rassegna le dimissioni e forma un nuovo governo insieme al PSDI e al Partito Repubblicano Italiano (PRI). Il PSI, sia pure fuori dal governo, garantisce l’appoggio esterno. Questa maggioranza arriverà sino a fine legislatura. Dopo le politiche del 1963, con l’entrata del PSI al governo, la svolta a sinistra sarà completa e porterà con sé, oltre a conseguenze piuttosto tragiche, anche forti cambiamenti nella politica economica.

Falso liberismo. Non possiamo però capire questa svolta senza conoscere la situazione dell’economia italiana negli anni precedenti il 1963. Facciamo quindi qualche passo indietro. Il quinquennio 1958-1963 ha un’importanza fondamentale della storia italiana. L’economia italiana, all’inizio degli anni Cinquanta, visse una fase molto turbolenta: le politiche economiche dei primi governi, infatti, non avevano dato gli esiti sperati, soprattutto perché l’azione del governo fu ambigua. Se da un lato vi erano forti tendenze liberiste, dall’altro il governo continuò a tenere in mano molte industrie e banche. L’IRI continuava a possedere quote di importanti imprese nazionali: nacque l’ENI, guidata da Enrico Mattei, per sviluppare l’industria petrolchimica ed energetica; la STET si impose monopolista della telefonia; la RAI, invece, ottenne il monopolio del sistema radiotelevisivo. Il settore privato, intanto, sviluppava il mercato dei beni al consumo, nascevano nuovi gruppi industriali che si affiancavano a quelli storici delle grandi famiglie (come gli Agnelli, gli Olivetti e i Pirelli) e alle piccole e medie imprese che caratterizzeranno l’industria italiana fino ai giorni nostri.

Il miracolo economico. Dal 1958 al 1963, però, si ebbe il vero e proprio miracolo economico, con una crescita del PIL che non avrebbe avuto più avuto eguali. Perché avvenne questo miracolo? La politica deflazionistica dei primi governi ebbe come effetto una specie di ripulitura del tessuto economico italiano. Molte imprese fallirono e la disoccupazione raggiunse alti livelli. Anche il piano Marshall non sembrava dare i frutti sperati. Poi, però, cominciò una piccola rivoluzione: nel 1957 l’Italia entra a far parte del Mercato Europeo Comune, cosa che favorì le esportazioni; le materie prime e l’energia raggiunsero prezzi bassissimi; la disoccupazione e la spaccatura del sindacato che abbiamo visto in precedenza raffreddò le pretese della forza lavoro, e quindi le industrie poterono usare manodopera a basso costo; lo Stato abbandonò la politica liberista, tenne basso il costo del denaro ed entrò nel mercato, addirittura creando un Ministero delle Partecipazioni Statali, sempre nel 1957. Tutti questi fattori, nel 1958, faranno esplodere l’economia italiana, crearono ricchezza e aumentarono il benessere.

Il lato oscuro del miracolo: lo sviluppo senza sviluppo. Questo sviluppo, se da un lato fu fortemente positivo, dall’altro fu tragico nel lungo periodo, tanto che ne stiamo ancora scontando gli effetti, nel 2008, dopo ben cinquant’anni. In primo luogo le industrie baseranno la propria attività non sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico, bensì sul basso costo della manodopera (e, come abbiamo visto in passato, nel lungo periodo nessuna economia può continuare a crescere solo grazie alla manodopera ((E ricordiamoci che nel 2008 siamo nel lungo periodo del 1958 e gli effetti di allora si sentono oggi))). In secondo luogo, lo Stato commise errori assolutamente grossolani, perché guardò solo al breve periodo: non investiva in ricerca e sviluppo; non contrastò l’evasione fiscale, a tutto danno dei ceti medio-bassi; questa carenza di quattrini limitava l’azione della Pubblica Amministrazione, e portò lo Stato a trascurare fondamentali investimenti in quello che oggi chiameremmo “welfare”, ovvero, trasporti, case, ospedali e scuole.

Le cattedrali nel deserto. In terzo luogo si ebbero dei veri e propri colpi di genio ((Si legga del sarcasmo nelle mie parole)): anche nel 1958, come oggi, d’altronde, il Mezzogiorno d’Italia era economicamente arretrato. Per sviluppare l’industria lo Stato decise di intervenire creando dei grandi poli industriali, che, come si può facilmente immaginare, avevano un costo elevatissimo. Furono soldi buttati: nel Mezzogiorno non c’era gente sufficientemente preparata per sostenere un’industria simile, visto che lo Stato, come abbiamo visto del paragrafo precedente, non investiva nell’istruzione. Queste industrie non creavano lavoro, non creavano il cosiddetto indotto (ovvero imprese minori dipendenti da un’industria maggiore) e quindi non diffondevano ricchezza. In parole povere erano cattedrali nel deserto.

Il fallimento della Cassa del Mezzogiorno. In quarto luogo il sistema partitico comincia già a manifestare deviazioni: ricordate la Cassa del Mezzogiorno di cui abbiamo parlato qualche tempo fa? Ebbene, i (molti) soldi destinati allo sviluppo del Sud furono utilizzati per fini assistenziali e clientelari. Nel breve periodo questa manna portarono a un lieve miglioramento delle condizioni economiche del Meridione, ma nel medio e nel lungo non servirono a molto, tanto che in vent’anni gli occupati erano aumentati solo di 270 mila unità. Un altro piccolo successo nel breve periodo, l’ennesimo fallimento nel lungo.

Le migrazioni. Il Nord-Ovest, nel frattempo, decolla: l’economia di quella regione, infatti, comincia a mostrare una forte vocazione industriale. Per questo motivo iniziarono le migrazioni, che inizialmente muoveranno persone dall’Nord-Est al Nord-Ovest e in misura minore dal Sud. Dopo il fallimento delle politiche statali nel Sud Italia i flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Nord, non solo italiano, ma anche europeo, si faranno decisamente più intensi, portando ad un ulteriore impoverimento delle regioni meridionali. In conclusione, se miracolo economico vi fu, fu solo grazie a una congiuntura economica favorevole e a politiche di breve periodo. Nel lungo periodo, come vedremo (o sentiamo oggi), la latitanza dello Stato (unita ad una tendenza alla miopia della politica italiana, che guarda sempre all’oggi e mai al domani) renderà vani gli effetti del miracolo economico.

La prossima volta, la quarta legislatura, le riforme del centrosinistra e i burrascosi anni Sessanta. Non mancate. 😉

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