Il deficit di cui dovremmo preoccuparci non è quello economico

Una fotografia di una persona vestita da clown malvagioLa moda politica di questa estate sembra essere bistrattare il concetto di deficit a fini elettorali. Il motivo sembra piuttosto banale: la gente comune non ha la più pallida idea di come funzioni l’economia a livello base, figuriamoci un concetto come il deficit, peraltro politicizzato da anni di austerità.

Prenderemo ad esempio tre scemenze dette o proposte da parte di esponenti di spicco dei tre soggetti che, salvo rivoluzioni, si contenderanno la maggioranza alle prossime elezioni, per dimostrare che se tutto va bene siamo spacciati.

Intanto definiamo il deficit in termini semplici, non necessariamente ortodossi: bisogna farlo perché chi parla di deficit da politico lo fa per slogan cretini, e non si può combattere uno slogan con definizioni accademiche. Quindi:

Il deficit è la differenza fra quello che lo Stato spende e quello che lo Stato incassa. Se questa differenza è positiva, lo Stato spende più soldi di quelli che incassa, e quindi deve prendere in prestito la differenza. Questi soldi presi in prestito andranno restituiti in futuro usando i soldi delle tasse.

Detto quindi in maniera molto semplice e semplicistica, un aumento del deficit è un aumento delle tasse (( Questo non è necessariamente un male se il deficit viene speso per aumentare strutturalmente la crescita: la gente pagherà più tasse, ma avrà pure guadagnato più soldi. Non è una tragedia pagare 10 euro di tasse in più se in tasca, a fine mese, me ne rimangono ulteriori 20. Il problema è che in Italia il deficit è stato regolarmente usato per aumentare fittiziamente la crescita, e ora che il giochino si è rotto, la gente paga più tasse per pagare i debiti contratti negli anni precedenti, ma su uno stipendio reale inferiore. )) .

E veniamo quindi al caso numero 1.

Alessandro di Battista: “o qua ci date una mano [con i migranti, nda] oppure non vi diamo quattrini per 6 mesi oppure sforiamo questo rapporto deficit/Pil per i nostri comuni”

È utile una metafora: avete parcheggiato l’auto in doppia fila per un qualsiasi motivo. Al vigile ovviamente non interessa se questo motivo è giustificabile, e vi fa la multa. Voi vedete il vigile scrivere sul suo taccuino, correte verso di lui e cominciate a protestare. Il vigile non fa una piega e voi minacciate che, se non vi toglie la multa, voi comincerete a rompere a testate il tergicristallo del vostro veicolo. Inevitabilmente il vigile avrà due scelte: o chiama la polizia per farvi sbollire in gabbia o chiama l’ospedale per farvi mettere la camicia di forza.

La minaccia di di Battista è ugualmente insensata.

Le regole sul deficit non esistono perché l’Europa ci vuole sottomettere dopo averci distrutto economicamente (l’abbiamo fatto benissimo da soli ben prima che entrasse in vigore il Trattato di Maastricht), bensì per altri due motivi: la prima è perché, come abbiamo detto, fare deficit insensato significa usare il denaro dei contribuenti non per pagare scuole, ospedali e strade, ma per pagare gli interessi alle banche che i grillini ci ricordano essere brutte e cattive; la seconda è evitare che i Paesi fiscalmente responsabili debbano pagare per quelli irresponsabili.

Minacciare quindi l’Europa di aumentare il deficit per farle un dispetto significa da un lato aumentare le tasse ai propri cittadini, dall’altro accelerare la costruzione del cordone sanitario intorno all’Italia per evitare che, quando imploderà, faccia danni apocalittici su tutto il continente.

Di Battista, come tanti altri politici italiani, non vede il deficit per quello che è, ma come una regola imposta da una matrigna cattiva che ti impedisce di mangiare troppe caramelle. Ma Di Battista, come un bambino, non è in grado di capire che questa regola esiste per evitare che ti venga un doloroso mal di pancia. E per questo si mette a piangere rotolando sul pavimento e sfasciando i propri giocattoli.

Caso numero 2: Matteo Renzi

Renzi ha proposto di spingere il deficit al limite del Trattato di Maastricht (2,9%) e usare questa “flessibilità aggiuntiva” per tagliare le tasse.

Ora, per quanto detto sopra, un aumento del deficit è un aumento delle tasse nel futuro, quindi Renzi vuole aumentare le tasse domani per tagliare le tasse oggi. In teoria, può anche funzionare, se non fosse per tre dettagli.

Il primo, segnalato già da chiunque, è che Renzi suppone l’inesistenza del ciclo economico, ovvero una legge praticamente naturale che dice che l’economia cresce, si ferma, decresce, si ferma e poi ricomincia a crescere, come il ciclo delle stagioni.

È molto probabile (che è un modo scientifico per dire “è sicuro”) che arriverà una recessione entro i prossimi tot unità di tempo. Una recessione gonfia il rapporto deficit/PIL (perché si riduce il denominatore): questo significa che il deficit, già al 2,9%, supererà questa soglia se mantenuto ai livelli assoluti precedenti. Renzi, a questo punto, non avrebbe altra scelta (se vuole tenere il deficit al 2,9% come lui stesso ha promesso) di attuare una manovra prociclica, che aggrava la recessione, tagliando le spese e/o alzando le tasse per ridurre il deficit in termini assoluti. Ma è molto probabile che Renzi non lo farà.

In un evento del genere, piuttosto, Renzi dirà “me ne frego del deficit”, lo lascerà salire “come hanno fatto Germania, Francia, Spagna” e blablabla. A quel punto chi ha investito sull’Italia perderà la già scarsa fiducia nella capacità del governo di controllare i conti (perché Renzi ha mentito spudoratamente), liquiderà questi investimenti e lascerà che l’Italia imploda. Il debito pubblico diventerà insostenibile e quindi o si dichiarerà il default (che non sarà chiamato default, ma una cosa simile a quella avvenuta in Grecia) oppure (o in aggiunta) si farà una bella patrimoniale straordinaria. In ogni caso non sarà un bello scenario, perché il risultato sarà comunque un’ulteriore depressione economica.

Secondo dettaglio: c’è da ricordare che Renzi ha un’idea tutta sua di “taglio delle tasse”. Per Renzi il bonus 80 euro sono taglio delle tasse, ma in realtà sono spesa pubblica, peraltro molto inefficiente. Visto che Renzi non sembra avere nessuna intenzione di fare abiura, è lecito credere che i “tagli delle tasse” a deficit comporteranno, semplicemente, una nuova distribuzione di mance e mancette.

Terzo dettaglio: non sono solo le tasse a frenare la crescita, ma una quantità di problemi che è meglio non elencare per questioni di sintesi. Oltre a una riduzione delle tasse, al Paese servono tutta una serie di riforme strutturali che Renzi non è riuscito a fare nei tre anni in cui è stato dominus di questo Paese, sprecando invece il suo capitale politico su una riforma della Costituzione sbilenca che lui ha avuto il colpo di genio di trasformare in un plebiscito su sé stesso (perdendolo).

Ah, il motivo per il quale Renzi non ha fatto queste riforme è molto semplice: sono riforme impopolari.

Quindi, Renzi dovrebbe vincere le elezioni con grande mandato elettorale, dopodiché dovrebbe fare delle riforme che gli farebbero perdere consensi, rinnegando cioè quello che è stato Renzi dal 2012 in poi.

Sembra un po’ improbabile.

E infine il caso numero 3: il centrodestra.

Il centrodestra, come molti i partiti “conservatori”, vive ancora negli anni 80, quando, fra le altre cose, andava di moda la curva di Laffer. Di questa scemenza ho parlato coloritamente qui.

Riassumiamo in breve: Laffer intuì che se l’aliquota di una tassa è a 0%, il gettito sarà 0; se l’aliquota è del 100%, il gettito sarà altrettanto, 0, perché la gente non ha incentivo a lavorare, o comunque ad avere il comportamento previsto dalla tassa (per esempio, se l’IMU fosse al 100% del valore della casa, nessuno comprerebbe un’abitazione). E fin qui tutto bene. Da qui in poi però l’alcool test comincia ad andare fuori scala.

Secondo Laffer, esiste un’aliquota che massimizza il gettito fiscale: se aumenti questa aliquota, ricavi meno tasse; se la diminuisci, idem. Quale sia questa aliquota, non si sa. Se sia una sola aliquota e non due, tre o quattro a massimizzare il gettito, non si sa. Una cosa, però, la sapeva: questa aliquota magica era più bassa di quella attuale (perché, non si sa), per cui bisognava tagliare le tasse per stimolare la crescita economica.

Il bello di questa teoria non è il fatto che funzioni (anche perché non funziona), bensì quello che puoi spiegarla a un cretino qualsiasi in cinque minuti, e quel cretino potrà spiegarla a un altro cretino in cinque minuti, finché non avrai convinto abbastanza cretini da farti vincere le elezioni. Per questa ragione i repubblicani USA la adottarono e la applicarono. Non solo, ma l’applicarono pure male.

Berlusconi e la Lega Nord propongono la stessa cosa. Ed è la stessa cosa che propone Renzi, nel suo principio fondamentale, e cioè che “bisogna tagliare le tasse”.

Alle obiezioni già sollevate per Renzi, dobbiamo a questo punto aggiungere due osservazioni: la prima è che questa teoria è stata applicata e smantellata. Un taglio delle tasse fatto per religione e non per sensatezza economica ha due effetti: aumenta la disuguaglianza (i ricchi diventano sempre più ricchi) e aumenta il deficit.

L’ultimo esempio viene dal Kansas, dove, dopo due anni, il Parlamento statale ha deciso di porre fine al folle esperimento del governatore Sam Brownback, che aveva tagliato le tasse e prevedeva di farlo ancor di più, fino a portare a zero le imposte sul reddito personale. Per Brownback questo avrebbe significato lavoro, crescita, ricchezza. Non è accaduto niente del genere.

Il Kansas non è cresciuto in maniera apprezzabilmente più elevata rispetto ad altri Stati con cui si può confrontare, anzi, altri hanno fatto meglio, specie quanto a creazione di posti di lavoro.

Inoltre questo taglio delle tasse ha creato una voragine nei conti pubblici (il deficit, appunto), perché non è stato accompagnato da una contestuale riduzione della spesa, dato che Brownback era convinto, in base alla religione reaganiana, che il taglio delle tasse si sarebbe ripagato da solo.

Quando si è accorto che non stava succedendo, ha cominciato a tagliare le spese, a cominciare dall’istruzione. Il risultato? Gli elettori hanno punito Brownback e i suoi colleghi integralisti di rito reaganiano, eleggendo democratici e repubblicani moderati che hanno posto fine alla follia di Brownback.

Seconda osservazione: un taglio delle tasse lasciato lì da solo non si può fare. Le tasse in Italia (intese come tutto quello che lo Stato estrae dalla produzione) sono probabilmente molto alte, ed è possibile che tagliandole si abbiano effetti positivi.

Il problema, come abbiamo detto, è che non è sicuro che questi effetti positivi compensino il minor gettito. Anzi, dato che il Paese è depresso per ragioni ulteriori rispetto alla pressione del fisco, è molto probabile che una diminuzione delle tasse non sarà sufficiente per mantenere inalterato il gettito. Servono riforme strutturali e impopolari, oltre a dei tagli alle spese (in un certo senso benvenuti), come dimostra il caso del Kansas. Ma lo stesso caso dimostra che fare le cose per bene (tagliare la spesa e tagliare le tasse) rischia di essere impopolare, specie se si considera che la spesa pubblica italiana è di pessima qualità, perché spesso è usata per mantenere intatte le clientele e quindi il portafoglio dei voti.

Infine, le tasse sono una cosa molto complicata, e anche think tank molto preparati che hanno proposto una riforma fiscale più organica di quella strillata nei talk show stanno ricevendo critiche perché non tutto il piano sembra far quadrare i conti. Figuriamoci gente ricca solo di slogan e bisognosa di ogni voto possibile.

Una conferma indiretta di ciò sono stati i governi Berlusconi-Lega Nord che hanno governato il Paese per gran parte del primo decennio di questo secolo. Hanno promesso ogni anno un taglio delle aliquote IRPEF (di solito al 23% e al 33%), ma non l’hanno mai realizzato, perché avrebbe comportato altri problemi se non accompagnato da altre riforme, a cominciare dalla spesa pubblica.

Ma fare riforme necessarie ma impopolari avrebbe significato pressioni sui conti pubblici, incertezza, recessione, perdita di consensi, fine del bunga bunga e delle ruberie della Lega Nord di Bossi. Non c’era alcun incentivo a farlo, se non quello di fare la cosa giusta per il Paese. (( Si noti che l’ultimo governo Berlusconi finì proprio in questo modo, ma con un ordine diverso: prima arrivò la recessione, che tolse ogni margine di manovra finanziaria al governo, poi l’incertezza, le pressioni sui conti e infine la perdita di consensi fuori e dentro il Parlamento. Ricordiamo che il governo cadde tecnicamente perché un voto sul rendiconto dello Stato dimostrò che Berlusconi non aveva più una maggioranza parlamentare. )).

Dunque, abbiamo avuto ben due presidenti del Consiglio dotati di forti maggioranze (Berlusconi e Renzi) che però non sono riusciti a tagliare le tasse, perché questi due figuri non avevano, né hanno, la statura di uno statista, capace di fare la cosa giusta anche se questo significa rischiare di perdere la poltrona.

Il vero deficit di cui dovremmo preoccuparci, insomma, non è quello fra entrate e uscite dello Stato, ma fra i pagliacci che ci hanno governato o che desiderano governarci e le persone di cui avremmo bisogno per uscire da queste sabbie mobili.

Photo by Señor Codo [CC BY-SA 2.0], via Wikimedia Commons

Se l’articolo ti è piaciuto, puoi incoraggiarmi a scrivere ancora con una donazione, anche piccolissima. Grazie mille in ogni caso per essere arrivato fin quaggiù! Dona con Paypal oppure con Bitcoin (3HwQa8da3UAkidJJsLRfWNTDSncvMHbZt9).

4 Comments

Comments are closed.