Ieri il commissario europeo all’Economia Joaquin Almunia ha affermato che il costo del lavoro in Italia è troppo alto. La cosa può sembrare incredibile se pensiamo che gli stipendi degli italiani sono quelli che sono cresciuti meno e che quindi sono relativamente più bassi.
A prima vista può sembrare una contraddizione, ma in realtà la cosa è molto diversa e molto coerente.
In Italia gli stipendi sono in qualche modo indicizzati all’inflazione: questo vuol dire che se l’indice dei prezzi al consumo sale del 10%, gli stipendi saliranno pure del 10% (anche se l’aggiustamento non è immediato, ma frutto di contrattazione fra le parti sociali). Due osservazioni (che esprimono semplicemente il mio punto di vista): l’inflazione resa nota dall’ISTAT è basata su un campione di beni di largo consumo che però non tiene esattamente in conto le abitudini degli italiani (infatti molti cibi, come pane e pasta, sono aumentati molto più dell’inflazione – e ci sono anche oggetti che non vengono esattamente comprati spesso). Questo significa che l’aumento degli stipendi non compensa l’aumento dei prezzi, e quindi siamo effettivamente più poveri. Inoltre indicizzare i prezzi all’inflazione, anche se non automaticamente, avvia la cosiddetta spirale inflazionistica: se aumentiamo i salari del 10% per compensare l’inflazione del 10%, le imprese dovranno aumentare i prezzi dei prodotti, e quindi far aumentare ulteriormente i prezzi, che faranno aumentare i salari e così via.
Insomma, rischiamo di impiccarci da soli. Cosa che, tra l’altro, stiamo già facendo.
Dunque la contraddizione è spiegata: l’aumento dei salari fa aumentare i costi per le imprese (il lavoro costa troppo), ma tale aumento si limita a compensare l’inflazione (gli stipendi sono realmente bassi).
Gli stipendi bassi comportano meno consumi, quindi meno profitti per le imprese, le quali dunque spingono per far scendere i costi, e il costo principale è il lavoro. In Italia le imprese per sopravvivere (o per aumentare il margine) cercano principalmente di fermare gli aumenti degli stipendi e una battaglia vinta dalle imprese è quella sul precariato (la famosa legge Maroni, già legge Biagi): aumentare la flessibilità del mercato del lavoro comporta una diminuzione del salario reale (non nominale, quello che viene aumentato con la contrattazione) per una semplice legge macroeconomica.
Ma agire semplicemente sul costo del lavoro non serve assolutamente a nulla, e questo lo aveva capito già Henry Ford: se io do uno stipendio sufficiente ai miei dipendenti, loro potranno comprarsi la macchina che essi stessi producono, e ci guadagnamo entrambi. Per questo Ford ebbe il colpo di genio: invece di abbassare i salari, faccio in modo che i miei dipendenti producano di più. In questo modo posso aumentare gli stipendi, produrre di più e vendere di più. E così ristrutturò i processi per l’assemblaggio e il 5 gennaio del 1914 portò a 5 dollari al giorno il salario dei dipendenti (aumentandolo di poco più del doppio, prima era a 2,34 dollari). Sapete che fecero i suoi colleghi industriali? Si incazzarono, perché significava doversi fare concorrenza, ovvero puntare a migliorare per sopravvivere (comodo sfruttare il lavoratore sottopagato). Ma Ford, alla fine, ebbe ragione, e il suo modello T fu un successo.
Senza ritornare alla (sic) catena di montaggio e agli altri eccessi di Ford, oggi le imprese sono in grado di aumentare la produttività: all’estero si fa da anni, ma non in Italia, dove, puntando sempre e solo sulla favoletta del made in Italy, si vogliono produrre le stesse cose con gli stessi mezzi di cinquanta o duecento anni fa. Non c’è innovazione, non c’è ricerca, e l’unico modo che hanno le imprese per continuare a competere è frenare i salari e/o aumentare i prezzi: ma il risultato non è flessibilità, bensì schiavismo. Ed è una scelta miope, e che, come si vede, ha fatto malissimo al Paese.
Cosa si può fare: come ha detto Almunia, bisogna puntare sulla produttività e sull’efficienza. Lo Stato non deve rompere i maroni con la burocrazia (Brunetta pensaci tu). Lo Stato deve abolire la legge Maroni: va bene la flessibilità, ma non può essere una scelta di vita. Il dipendente non deve sentirsi un emarginato nell’azienda, perché in quanto tale lavorerà appena quanto basta per non essere licenziato anzitempo (“Perché dovrei impegnarmi al massimo se già so che fra un anno sarò licenziato? Meglio impegnarsi al minimo ed essere comunque mandato a casa fra un anno”). Una volta acquisita la sicurezza del posto di lavoro (almeno per un tempo non breve), il dipendente sarà incentivato a lavorare per quella che è la “sua” azienda, diventerà più efficiente e produttivo, e questo contribuirà a far calare il costo del suo lavoro, frenando la deriva inflazionistica (i prezzi cresceranno meno perché i costi sono cresciuti meno) e quindi facendo ripartire i consumi.
Sembra facile risolvere questa situazione, ed in effetti lo è. I problemi, però, sono sempre gli stessi: la politica italiana, sia a sinistra che (soprattutto) a destra, è strettamente legata al mondo dell’imprenditoria, che quindi può fare pressione sui politici perché non prendano decisioni scomode (per gli industriali). La cosa buffa è che non prendendo quelle decisioni scomode (per loro) gli industriali non hanno problemi nel breve periodo, ma ce l’avranno nel medio (dove, tra l’altro, agisce quella legge macroeconomica di cui parlavo prima) e se non innovano (puntando semplicemente a ridurre i salari) l’avranno anche nel lungo (per il modello di Solow). Il Paese intero, invece, avrà (e ha) problemi nel breve, nel medio e nel lungo. Non state a sentire i politici che parlano di “congiuntura economica sfavorevole”: le cose vanno male da decenni, non da qualche anno. La crisi economica in atto non fa altro che aggravare una crisi che è nella struttura, non nella congiuntura (pensateci: com’è che noi cresceremo solo dello 0,1%, mentre Francia e Germania – che pure subiscono la stessa congiuntura economica sfavorevole – cresceranno del 1% e 1,5% rispettivamente, e con una media europea del 1,3%? Mi pare che il problema è nostro, non “della congiuntura” come dice un qualunque Tremonti della domenica… – vi prego di notare che il Corriere dice che le cose vanno in Italia vanno come in Francia e Germania, ma si tratta solo dell’ennesima copertura mediatica per nascondere l’incapacità dei nostri politici: Francia e Germania vanno 10 e 15 volte più veloci di noi, i numeri non scherzano.)
E siccome le cose che si possono fare per migliorare questo stato ci sono, la questione non è “cosa fare”, ma, ancora una volta, solo una questione di “voler fare”.
Purtroppo negli ultimi quindici anni abbiamo avuto solo governi che non volevano fare (a destra, soprattutto grazie a mr. conflitto-di-interessi, l’imprenditore Silvio Berlusconi) e governi che, anche se avessero voluto, non avrebbero potuto fare (a sinistra, poiché al suo interno dovevano convivere liberali, comunisti, industriali alla Matteo Colaninno e imbecilli comuni, col risultato che non riuscivano a mettersi d’accordo).
Poi qualcuno (ovviamente, un qualcuno politico) si lamenta se Beppe Grillo chiede un ricambio generazionale (e penale) in Parlamento. Se, qualunque sia il colore del governo, in Parlamento siedono sempre gli stessi e le cose vanno sempre male, forse una soluzione non potrebbe essere cambiare i politici?
La risposta è sì: peccato che questa via ci sia preclusa grazie al Porcellum (si scelgono fra di loro, quindi non contiamo nulla). Di conseguenza non possiamo fare nulla neppure come elettori. Siamo inutili, buoni solo a lavorare come schiavi. Purtroppo, quando si accorgeranno di tutto questo, sarà troppo tardi (e loro, che già sono vecchi e stravecchi, saranno probabilmente morti di vecchiaia). Noi, giovani, saremo fottuti.
(No, non sono pessimista, magari lo fossi! Sono semplicemente realista, purtroppo… Voi pensate che le cose non sono così tragiche? Discutiamone nei commenti! 🙂 )
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“vendere di p5 dollari al giornoiù”
anche la tua tastiera è assunta come co.co.co.?
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Il PC è ormai precario…dopo il disco rigido, mi sa che i prossimi a saltare saranno i dispositivi di input.-.-
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Complimenti per l’articolo, è da un po’ che seguo il tuo blog e devo dire che mi piace molto: chiaro anche su questioni intricate, esauriente ma non prolisso… mi sa proprio che questo non sarà l’ultimo articolo che segnalerò sul mio sitarello!
Complimenti per l’articolo, è da un po’ che seguo il tuo blog e devo dire che mi piace molto: chiaro anche su questioni intricate, esauriente ma non prolisso… mi sa proprio che questo non sarà l’ultimo articolo che segnalerò sul mio sitarello!
Ti ringrazio per essere passato e per il tuo riconoscimento. Studiando economia ho notato che molte cose vanno raccontate a chi non è “dentro” in un modo un po’ più chiaro ed esteso di chi, per professione, usa il politichese (spesso e volentieri per non far capire all’elettore cosa esattamente sta facendo alle sue tasche – qualcuno lo chiama “effetto Galliani”: mentre il presidente del Milan si esaltava per la vittoria dello scudetto, qualcuno ne approfittò per rubargli il portafogli…).
Già quando sei passato la prima volta avevo letto con piacere il tuo sito, ma a causa di altri impegni e dei problemi al pc di cui parlavo poco sopra, ho dimenticato di aggiungerlo ai feed. Ora ho rimediato e ti aggiungo al blogroll, così non dimenticherò di passare dalle tue parti (e auspicabilmente, anche i miei visitatori 😉 )
Ti ringrazio per essere passato e per il tuo riconoscimento. Studiando economia ho notato che molte cose vanno raccontate a chi non è “dentro” in un modo un po’ più chiaro ed esteso di chi, per professione, usa il politichese (spesso e volentieri per non far capire all’elettore cosa esattamente sta facendo alle sue tasche – qualcuno lo chiama “effetto Galliani”: mentre il presidente del Milan si esaltava per la vittoria dello scudetto, qualcuno ne approfittò per rubargli il portafogli…).
Già quando sei passato la prima volta avevo letto con piacere il tuo sito, ma a causa di altri impegni e dei problemi al pc di cui parlavo poco sopra, ho dimenticato di aggiungerlo ai feed. Ora ho rimediato e ti aggiungo al blogroll, così non dimenticherò di passare dalle tue parti (e auspicabilmente, anche i miei visitatori 😉 )
Penso che l’espressione “effetto Galliani” sia davvero perfetta per spiegare il fenomeno… detto questo, ti ringrazio per l’aggiunta ai feed e al blogroll!
Penso che l’espressione “effetto Galliani” sia davvero perfetta per spiegare il fenomeno… detto questo, ti ringrazio per l’aggiunta ai feed e al blogroll!
Siamo sicuri che sia solo un problema di efficienza? È vero che la diminuzione del precariato porta indirettamente, come spieghi, ad un aumento dell’efficienza ma mi pare una cosa un po’ “tirata” per essere il precariato l’unica causa del problema. Anche perché in Italia sono tantissime le PMI.
Quanto è influente secondo te la concorrenza da parte di paesi che riescono ad entrare sul mercato a prezzi decisamente più concorrenziali dei nostri?
Cioè, è chiaro che io non posso competere con aziende che producono in paesi dove hanno meno imposizioni fiscali, dove la manodopera è pagata pochissimo e dove le norme sulla protezione ambientale (il cui rispetto implica dei costi notevoli per certi settori) sono inesistenti o ignorabili?
E quanto è influente l’imposizione fiscale sul lavoro?
Cioè, una grande azienda può permettersi di pagare 3000 euro per dare 1300 euro di stipendio ad un lavoratore (non sono sicuro ma non dovrei essere molto distante dalle proporzioni reali). Ma la realtà delle PMI è diversa e ci sono aziende che o licenziano o chiudono quando il loro settore traballa.
E hanno ben poca voce, a differenza dei grandi industriali.
E poi ci sono i liberi professionisti che anch’essi pagano un sacco di tasse/imposte/contributi. Insomma, ci sono lavoratori dipendenti che vogliono un aumento e magari guadagnano 1400/1500 euro al mese, mentre il libero professionista deve fatturare anche il doppio (e mica è facile) per avere al netto quei soldi.
Secondo me, da una parte va frenata l’immissione sul mercato di merci provenienti da paesi in cui nel lavoro non sono rispettati i diritti umani e adeguate norme di protezione ambientale. Dall’altra ci vogliono forti sgravi fiscali sul costo del lavoro per le PMI, mentre per le grandi imprese degli sgravi condizionati del tipo “paghi K € meno al fisco ma aumenti il salario di X € e investi in R&D Y €”.
Gradirei un tuo parere dato che sono un profano della materia.
Siamo sicuri che sia solo un problema di efficienza? È vero che la diminuzione del precariato porta indirettamente, come spieghi, ad un aumento dell’efficienza ma mi pare una cosa un po’ “tirata” per essere il precariato l’unica causa del problema. Anche perché in Italia sono tantissime le PMI.
Quanto è influente secondo te la concorrenza da parte di paesi che riescono ad entrare sul mercato a prezzi decisamente più concorrenziali dei nostri?
Cioè, è chiaro che io non posso competere con aziende che producono in paesi dove hanno meno imposizioni fiscali, dove la manodopera è pagata pochissimo e dove le norme sulla protezione ambientale (il cui rispetto implica dei costi notevoli per certi settori) sono inesistenti o ignorabili?
E quanto è influente l’imposizione fiscale sul lavoro?
Cioè, una grande azienda può permettersi di pagare 3000 euro per dare 1300 euro di stipendio ad un lavoratore (non sono sicuro ma non dovrei essere molto distante dalle proporzioni reali). Ma la realtà delle PMI è diversa e ci sono aziende che o licenziano o chiudono quando il loro settore traballa.
E hanno ben poca voce, a differenza dei grandi industriali.
E poi ci sono i liberi professionisti che anch’essi pagano un sacco di tasse/imposte/contributi. Insomma, ci sono lavoratori dipendenti che vogliono un aumento e magari guadagnano 1400/1500 euro al mese, mentre il libero professionista deve fatturare anche il doppio (e mica è facile) per avere al netto quei soldi.
Secondo me, da una parte va frenata l’immissione sul mercato di merci provenienti da paesi in cui nel lavoro non sono rispettati i diritti umani e adeguate norme di protezione ambientale. Dall’altra ci vogliono forti sgravi fiscali sul costo del lavoro per le PMI, mentre per le grandi imprese degli sgravi condizionati del tipo “paghi K € meno al fisco ma aumenti il salario di X € e investi in R&D Y €”.
Gradirei un tuo parere dato che sono un profano della materia.
Devo dire che l’ultima parte del commento di Massimiliano mi convince: sarà che, tra tutti i problemi che affliggono la malsana economia italiana, c’è un po troppa concorrenza, specialmente cinese? E, parliamoci chiaro, non puoi dire che le scarpe fatte nello Shanxi sono come quelle fatte a Firenze, perché è il classico “scambiar la merda con la cioccolata” (poi, se a qualcuno piace più la merda della cioccolata, affar suo). Il fatto è che, se in Cina la manodopera costa 1 dollaro, l’azienda, rivendendo il prodotto a 100, e sottraendo le varie spese (materiali, ammortamento delle macchine e compagnia bella), ci guadagna più che in Italia (per esempio), dove l’operaio non si accontenta di 70 centesimi al giorno, piuttosto di 70 €, e su questo, credo non ci piova (essendo anche io un profano, potrei sbagliare, quindi correggimi, ma con delicatezza ^^). Dunque, il Made in Italy non è un’utopia, come affermi tu, perché se io continuo a comprare dai cinesi, danneggio l’industria e il commercio tricolori. Bisognerebbe, ed ha ragione Massimiliano, incentivare “a forza” il consumo dei NOSTRI prodotti, perché se gli stranieri vedono che il loro prodotto non attecchisce, o lo regalano come la frutta invenduta a fine giornata, oppure chiudono baracca e baracchini e cambiano paese. Il Made in Italy, per la mia bisnonna (pace all’anima sua), era un dogma; se dovessi riassumere il suo stile di vita in due parole, queste sarebbero Dio e made in Italy. Vabbè, ho divagato sul personale, e spero di non aver annoiato. Chiudo dicendo che, seppure non è il made in Italy “the solution to all of life’s problems” (cit.), potrebbe essere un punto di partenza. O no?
Devo dire che l’ultima parte del commento di Massimiliano mi convince: sarà che, tra tutti i problemi che affliggono la malsana economia italiana, c’è un po troppa concorrenza, specialmente cinese? E, parliamoci chiaro, non puoi dire che le scarpe fatte nello Shanxi sono come quelle fatte a Firenze, perché è il classico “scambiar la merda con la cioccolata” (poi, se a qualcuno piace più la merda della cioccolata, affar suo). Il fatto è che, se in Cina la manodopera costa 1 dollaro, l’azienda, rivendendo il prodotto a 100, e sottraendo le varie spese (materiali, ammortamento delle macchine e compagnia bella), ci guadagna più che in Italia (per esempio), dove l’operaio non si accontenta di 70 centesimi al giorno, piuttosto di 70 €, e su questo, credo non ci piova (essendo anche io un profano, potrei sbagliare, quindi correggimi, ma con delicatezza ^^). Dunque, il Made in Italy non è un’utopia, come affermi tu, perché se io continuo a comprare dai cinesi, danneggio l’industria e il commercio tricolori. Bisognerebbe, ed ha ragione Massimiliano, incentivare “a forza” il consumo dei NOSTRI prodotti, perché se gli stranieri vedono che il loro prodotto non attecchisce, o lo regalano come la frutta invenduta a fine giornata, oppure chiudono baracca e baracchini e cambiano paese. Il Made in Italy, per la mia bisnonna (pace all’anima sua), era un dogma; se dovessi riassumere il suo stile di vita in due parole, queste sarebbero Dio e made in Italy. Vabbè, ho divagato sul personale, e spero di non aver annoiato. Chiudo dicendo che, seppure non è il made in Italy “the solution to all of life’s problems” (cit.), potrebbe essere un punto di partenza. O no?
@Massimiliano: Infatti non ho detto che il precariato è l’unica causa del problema, bensì che è una delle cause che hanno aggravato la situazione italiana (flessibilità non vuol dire precariato, il precedente governo Berlusconi ha trasportato con legge una situazione americana – dove una persona rimane disoccupata per poco – nella situazione italiana – come in Europa, in Italia un disoccupato rimane tale, in media, anche per anni). Potrà anche avere avuto effetti nel breve, ma adesso che entriamo nel medio si cominciano a vedere i difetti di questo intervento.
Poi, i Paesi emergenti entrano nel nostro mercato a prezzi bassissimi grazie ad un bassissimo costo del lavoro. Le aziende italiane tentano di competere con esse su questo piano, ma, a meno di ritornare allo schiavismo, non potranno vincere, perché in quei Paesi i lavoratori vengono trattati come schiavi. Per questo motivo bisogna puntare all’efficienza, per non erodere il potere d’acquisto e favorire la domanda interna. Questi due fattori fanno sì che i consumatori possano puntare su prodotti di qualità (che i prodotti stranieri non hanno) a un prezzo relativamente contenuto (grazie all’aumento dell’efficienza).
L’imposizione fiscale ha certamente il suo ruolo, ma in Italia un taglio delle tasse non è per nulla auspicabile, vista la situazione dei conti pubblici (Maastricht continua a rimanere in vigore anche se a qualcuno non piace). Ma il lato fiscale è una situazione molto complicata, che non mi sento di affrontare in poche righe.
Quanto alle misure che tu hai proposto:
1) blocco alle importazioni da Paesi senza quei requisiti: fortemente contrario. In questo modo si incentivano le imprese a non innovare e a non investire nell’efficienza (si aggraverebbe la situazione attuale);
2) sgravi fiscali sul costo del lavoro per le PMI: il problema diventa come utilizzare questo sgravio. Se devono diventare utili per gli azionisti allora no, devono essere investiti in innovazione (le PMI dovrebbero essere le imprese innovatrici, ma quelle che innovano in Italia sono davvero poche → si noti che il venture capital che dovrebbe sostenere le PMI innovatrici (principalmente le start-up) è praticamente inesistente nel nostro Paese – il venture capital in Italia è di circa 60 milioni, contro i 150 della Spagna e i 700 della Francia, solo per citare alcuni).
3) Sgravi condizionati per le grandi imprese: come sopra, ma ovviamente le grandi imprese non hanno bisogno di capitale di ventura, anzi dovrebbero essere esse stesse a proporsi per sviluppare le start-up.
Oltre a queste misure, però, va aumentata la concorrenza e le altre condizioni strutturali del mercato, perché solo con una concorrenza vera le imprese sono incentivate a innovare. E l’innovazione è un must per non affondare nel lungo periodo, non c’è scampo.
@Massimiliano: Infatti non ho detto che il precariato è l’unica causa del problema, bensì che è una delle cause che hanno aggravato la situazione italiana (flessibilità non vuol dire precariato, il precedente governo Berlusconi ha trasportato con legge una situazione americana – dove una persona rimane disoccupata per poco – nella situazione italiana – come in Europa, in Italia un disoccupato rimane tale, in media, anche per anni). Potrà anche avere avuto effetti nel breve, ma adesso che entriamo nel medio si cominciano a vedere i difetti di questo intervento.
Poi, i Paesi emergenti entrano nel nostro mercato a prezzi bassissimi grazie ad un bassissimo costo del lavoro. Le aziende italiane tentano di competere con esse su questo piano, ma, a meno di ritornare allo schiavismo, non potranno vincere, perché in quei Paesi i lavoratori vengono trattati come schiavi. Per questo motivo bisogna puntare all’efficienza, per non erodere il potere d’acquisto e favorire la domanda interna. Questi due fattori fanno sì che i consumatori possano puntare su prodotti di qualità (che i prodotti stranieri non hanno) a un prezzo relativamente contenuto (grazie all’aumento dell’efficienza).
L’imposizione fiscale ha certamente il suo ruolo, ma in Italia un taglio delle tasse non è per nulla auspicabile, vista la situazione dei conti pubblici (Maastricht continua a rimanere in vigore anche se a qualcuno non piace). Ma il lato fiscale è una situazione molto complicata, che non mi sento di affrontare in poche righe.
Quanto alle misure che tu hai proposto:
1) blocco alle importazioni da Paesi senza quei requisiti: fortemente contrario. In questo modo si incentivano le imprese a non innovare e a non investire nell’efficienza (si aggraverebbe la situazione attuale);
2) sgravi fiscali sul costo del lavoro per le PMI: il problema diventa come utilizzare questo sgravio. Se devono diventare utili per gli azionisti allora no, devono essere investiti in innovazione (le PMI dovrebbero essere le imprese innovatrici, ma quelle che innovano in Italia sono davvero poche → si noti che il venture capital che dovrebbe sostenere le PMI innovatrici (principalmente le start-up) è praticamente inesistente nel nostro Paese – il venture capital in Italia è di circa 60 milioni, contro i 150 della Spagna e i 700 della Francia, solo per citare alcuni).
3) Sgravi condizionati per le grandi imprese: come sopra, ma ovviamente le grandi imprese non hanno bisogno di capitale di ventura, anzi dovrebbero essere esse stesse a proporsi per sviluppare le start-up.
Oltre a queste misure, però, va aumentata la concorrenza e le altre condizioni strutturali del mercato, perché solo con una concorrenza vera le imprese sono incentivate a innovare. E l’innovazione è un must per non affondare nel lungo periodo, non c’è scampo.
@Stef Mec: Il problema si pone in questi altri termini: se gli stipendi sono bassi, non posso comprare le scarpe fiorentine, quindi devo necessariamente comprare le scarpe cinesi (o camminare scalzo). L’unica soluzione per uscire bene da questa impasse è aumentare l’efficienza e la produttività, non diminuire i salari reali. Chiudere le frontiere ai cinesi significa solo incentivare le imprese a frenare i salari reali: magari ci guadagneranno pure nel breve, ma nel medio rimarranno al palo. Inoltre ci sono Paesi che hanno un costo del lavoro bassissimo e che sono già in Europa, ergo non si può chiudere loro le frontiere. Insomma il protezionismo è inutile.
Sulla qualità del made in Italy non c’è dubbio, ma un consumatore se le deve pure permettere. E se, invece che innovare e investire sull’efficienza, tenti di competere con i cinesi sul campo del costo del lavoro, è una sfida persa in partenza, e non una, ma due volte: la prima volta perché non riuscirai a pagare uno stipendio di settanta centesimi a un italiano; la seconda perché i consumatori non avranno soldi per comprare i tuoi prodotti.
Ti faccio un esempio reale: su un canale Mediaset ho visto che Mediashopping vende un aggeggio per la rasatura a 49 euro (circa), e il prezzo comprende anche altre cose come forbicine, pinzette, pettini e compagnia bella per la toeletta. A Napoli, per strada, ho visto lo stesso prodotto (identico, non un’imitazione) senza tutta la compagnia a tre euro. Anche se fosse conveniente comprare su Mediashopping che ti fa un set completo (e Mediashopping non fosse di Silvio), un tizio che sta alla canna del gas, l’aggeggio per la rasatura lo comprerebbe comunque dal cinese, perché non ha 49 euro da buttare in altre cose che non gli interessano. C’è il rischio che in questo modo il tizio foraggi la criminalità o che l’aggeggio sia difettoso, ma al limite avrà buttato tre euro. Se invece i soldi ce li ha, sarà più propenso a spendere 49 euro per il set completo, perché in quel caso non è più un problema di soldi.
(A margine: difficilmente si limiteranno le importazioni. Mi sa che Mediashopping (quindi Silvio stesso) compri all’ingrosso quell’aggeggio dai cinesi a due euro…e che lo stesso facciano molte altre imprese italiane – comprano tessuti in Cina e poi ci fanno scarpe “made in Italy” – sempre che non abbiano spostato le imprese in Romania. La differenza fra ieri e oggi è però la seguente: prima i cinesi facevano solo i tessuti e poi li esportavano, oggi fanno sia i tessuti che le scarpe, pestando i piedi agli italiani. Ho letto un libro (Nesi, L’età dell’oro, Bompiani, mi pare del 2005) che parlava della situazione italiana nel 2010, e che oggi mi pare incredibilmente profetico (guarda caso, il protagonista – se non ricordo male – è un proprietario di conceria di Prato che è costretto a vendere la sua impresa ai cinesi).
@Stef Mec: Il problema si pone in questi altri termini: se gli stipendi sono bassi, non posso comprare le scarpe fiorentine, quindi devo necessariamente comprare le scarpe cinesi (o camminare scalzo). L’unica soluzione per uscire bene da questa impasse è aumentare l’efficienza e la produttività, non diminuire i salari reali. Chiudere le frontiere ai cinesi significa solo incentivare le imprese a frenare i salari reali: magari ci guadagneranno pure nel breve, ma nel medio rimarranno al palo. Inoltre ci sono Paesi che hanno un costo del lavoro bassissimo e che sono già in Europa, ergo non si può chiudere loro le frontiere. Insomma il protezionismo è inutile.
Sulla qualità del made in Italy non c’è dubbio, ma un consumatore se le deve pure permettere. E se, invece che innovare e investire sull’efficienza, tenti di competere con i cinesi sul campo del costo del lavoro, è una sfida persa in partenza, e non una, ma due volte: la prima volta perché non riuscirai a pagare uno stipendio di settanta centesimi a un italiano; la seconda perché i consumatori non avranno soldi per comprare i tuoi prodotti.
Ti faccio un esempio reale: su un canale Mediaset ho visto che Mediashopping vende un aggeggio per la rasatura a 49 euro (circa), e il prezzo comprende anche altre cose come forbicine, pinzette, pettini e compagnia bella per la toeletta. A Napoli, per strada, ho visto lo stesso prodotto (identico, non un’imitazione) senza tutta la compagnia a tre euro. Anche se fosse conveniente comprare su Mediashopping che ti fa un set completo (e Mediashopping non fosse di Silvio), un tizio che sta alla canna del gas, l’aggeggio per la rasatura lo comprerebbe comunque dal cinese, perché non ha 49 euro da buttare in altre cose che non gli interessano. C’è il rischio che in questo modo il tizio foraggi la criminalità o che l’aggeggio sia difettoso, ma al limite avrà buttato tre euro. Se invece i soldi ce li ha, sarà più propenso a spendere 49 euro per il set completo, perché in quel caso non è più un problema di soldi.
(A margine: difficilmente si limiteranno le importazioni. Mi sa che Mediashopping (quindi Silvio stesso) compri all’ingrosso quell’aggeggio dai cinesi a due euro…e che lo stesso facciano molte altre imprese italiane – comprano tessuti in Cina e poi ci fanno scarpe “made in Italy” – sempre che non abbiano spostato le imprese in Romania. La differenza fra ieri e oggi è però la seguente: prima i cinesi facevano solo i tessuti e poi li esportavano, oggi fanno sia i tessuti che le scarpe, pestando i piedi agli italiani. Ho letto un libro (Nesi, L’età dell’oro, Bompiani, mi pare del 2005) che parlava della situazione italiana nel 2010, e che oggi mi pare incredibilmente profetico (guarda caso, il protagonista – se non ricordo male – è un proprietario di conceria di Prato che è costretto a vendere la sua impresa ai cinesi).
Spostato le imprese in Romania = parliamo della delocalizzazione, o sbaglio? Comunque, scusa, ma io penso che, piuttosto che sprecare tre euro per un aggeggio per la rasatura che sicuramente mi si romperà in mano dopo 20 minuti, quando con 3 euro mi ci compro un bel giornale, o anche un etto di prosciutto, mi sembra una stronzata. Io, personalmente, cerco di puntare alla qualità: se mi posso permettere un buon prodotto, me lo compro, altrimenti preferisco non averlo per niente piuttosto che usare una copia “scrausa” (come si dice da queste parti). Ma del resto, “noi” giovani di scarpe e Made in Italy proprio non possiamo parlare, visto che è tutto un Nike (USA), Adidas e Puma (Deutschland), e chi più ne ha (di marche straniere) più ne metta. E tu, non te ne tirare fuori ^^
Spostato le imprese in Romania = parliamo della delocalizzazione, o sbaglio? Comunque, scusa, ma io penso che, piuttosto che sprecare tre euro per un aggeggio per la rasatura che sicuramente mi si romperà in mano dopo 20 minuti, quando con 3 euro mi ci compro un bel giornale, o anche un etto di prosciutto, mi sembra una stronzata. Io, personalmente, cerco di puntare alla qualità: se mi posso permettere un buon prodotto, me lo compro, altrimenti preferisco non averlo per niente piuttosto che usare una copia “scrausa” (come si dice da queste parti). Ma del resto, “noi” giovani di scarpe e Made in Italy proprio non possiamo parlare, visto che è tutto un Nike (USA), Adidas e Puma (Deutschland), e chi più ne ha (di marche straniere) più ne metta. E tu, non te ne tirare fuori ^^
Non solo delocalizzazione: anche le imprese rumene beneficiano del basso costo del lavoro, ergo posso competere con l’Italia sui prezzi proprio in questo modo.
Per quanto riguarda i tre euro: non mi hai capito, l’aggeggio che trovi sulle bancarelle è lo stesso che trovi su Mediashopping (se MS, come credo, lo compra dai cinesi – o lo compra dagli americani che lo comprano dai cinesi, che è peggio per il markup -, perché i cinesi stessi non dovrebbero venderlo nelle bancarelle per strada? Già sono illegali di per sé, sai che gliene frega rompere l’eventuale diritto di esclusiva che MS ha per l’Italia (come credo, visto che non l’ho trovato altrove)…).
Poi stai facendo un altro discorso: è ovvio che consumatori diversi avranno gusti diversi, in altre parole se sei una donna non ti compri la schiuma da barba. Io sto parlando di un solo bene, identico in tutto e per tutto, magari assemblato dalla stessa mano, ma che viene venduto a prezzi decisamente diversi. Se tu quei tre euro li vuoi spendere per altro, è una cosa tua soggettiva.
Quando si parla di qualità il problema non cambia: se me le posso permettere mi compro le americane Nike, altrimenti mi compro le cinesi Niche. O vado scalzo.
Una delle conseguenze di questa guerra combattuta sul costo del lavoro e non sulla produttività e l’efficienza (e persa dalle aziende italiane) è che queste stesse imprese diventano deboli e quindi possibili prede di aziende estere. Basti pensare alla Sergio Tacchini SpA che l’anno scorso ha visto l’ingresso fra i suoi azionisti di una società cinese.
Non solo delocalizzazione: anche le imprese rumene beneficiano del basso costo del lavoro, ergo posso competere con l’Italia sui prezzi proprio in questo modo.
Per quanto riguarda i tre euro: non mi hai capito, l’aggeggio che trovi sulle bancarelle è lo stesso che trovi su Mediashopping (se MS, come credo, lo compra dai cinesi – o lo compra dagli americani che lo comprano dai cinesi, che è peggio per il markup -, perché i cinesi stessi non dovrebbero venderlo nelle bancarelle per strada? Già sono illegali di per sé, sai che gliene frega rompere l’eventuale diritto di esclusiva che MS ha per l’Italia (come credo, visto che non l’ho trovato altrove)…).
Poi stai facendo un altro discorso: è ovvio che consumatori diversi avranno gusti diversi, in altre parole se sei una donna non ti compri la schiuma da barba. Io sto parlando di un solo bene, identico in tutto e per tutto, magari assemblato dalla stessa mano, ma che viene venduto a prezzi decisamente diversi. Se tu quei tre euro li vuoi spendere per altro, è una cosa tua soggettiva.
Quando si parla di qualità il problema non cambia: se me le posso permettere mi compro le americane Nike, altrimenti mi compro le cinesi Niche. O vado scalzo.
Una delle conseguenze di questa guerra combattuta sul costo del lavoro e non sulla produttività e l’efficienza (e persa dalle aziende italiane) è che queste stesse imprese diventano deboli e quindi possibili prede di aziende estere. Basti pensare alla Sergio Tacchini SpA che l’anno scorso ha visto l’ingresso fra i suoi azionisti di una società cinese.
Rispondo per quanto concerne la risposta al mio commento.
Sì, so benissimo che i nostri conti pubblici sono in rosso, ma da qualche parte bisogna partire per rompere il feedback positivo a cui è soggetto il problema in questione. Innanzitutto con l’evitare che i piccoli vengano riempiti di tasse e i grossi evadano ed eludano a piacimento (ma vallo dire a Silvio).
Quanto alle PMI, quelle che intendo io sono quelle più sul piccolo che sul medio. SNC, SAS o SRL, niente azionisti, uno/due proprietari o aziende a gestione familiare. Mi riferisco ad aziende che hanno da zero a 50 dipendenti e che in genere operano trasformazioni su materiale semilavorato. A meno che non siano nel settore ICT non possono creare innovazione (o perché non possono permetterselo o perché non è un settore che permette di farlo), in genere il massimo che possono fare è acquistare un nuovo macchinario. Sono quelle di cui ho un riscontro più diretto, credo siano assai numerose in Italia. Insomma, a fronte di un costo del lavoro troppo elevato l’unica cosa che possono fare è lasciare a casa i lavoratori (e sono cose che si sentono quotidianamente qui).
Solo degli sgravi fiscali, IMHO, permetterebbero a molte di queste di continuare a funzionare. L’efficienza la puoi ottenere con 1000 dipendenti, ma con 10 in genere il massimo dell’efficienza ce l’hai già.
Le aziende che possono e devono investire in R&D sono le grandi aziende. Se non ricordo male quella che investe, in percentuale, di più è la FIAT ed è ben al di sotto di quanto si fa negli altri paesi.
Quanto al freno delle importazioni di cui parlavo, ho capito che dobbiamo incentivare le nostre imprese ad innovare ma diminuire la domanda di prodotti prodotti con sfruttamento (e non escludo le multinazionali) etc. è quantomeno un dovere etico.
Non ho letto tutto il resto, ma vedo che si parla anche di moda. È un settore di cui in Italia si parla molto, troppo. È il settore che ottiene i maggiori profitti creando sostanzialmente zero innovazione e il fatto che da noi sia così importante non è cosa di cui andare fieri.
Rispondo per quanto concerne la risposta al mio commento.
Sì, so benissimo che i nostri conti pubblici sono in rosso, ma da qualche parte bisogna partire per rompere il feedback positivo a cui è soggetto il problema in questione. Innanzitutto con l’evitare che i piccoli vengano riempiti di tasse e i grossi evadano ed eludano a piacimento (ma vallo dire a Silvio).
Quanto alle PMI, quelle che intendo io sono quelle più sul piccolo che sul medio. SNC, SAS o SRL, niente azionisti, uno/due proprietari o aziende a gestione familiare. Mi riferisco ad aziende che hanno da zero a 50 dipendenti e che in genere operano trasformazioni su materiale semilavorato. A meno che non siano nel settore ICT non possono creare innovazione (o perché non possono permetterselo o perché non è un settore che permette di farlo), in genere il massimo che possono fare è acquistare un nuovo macchinario. Sono quelle di cui ho un riscontro più diretto, credo siano assai numerose in Italia. Insomma, a fronte di un costo del lavoro troppo elevato l’unica cosa che possono fare è lasciare a casa i lavoratori (e sono cose che si sentono quotidianamente qui).
Solo degli sgravi fiscali, IMHO, permetterebbero a molte di queste di continuare a funzionare. L’efficienza la puoi ottenere con 1000 dipendenti, ma con 10 in genere il massimo dell’efficienza ce l’hai già.
Le aziende che possono e devono investire in R&D sono le grandi aziende. Se non ricordo male quella che investe, in percentuale, di più è la FIAT ed è ben al di sotto di quanto si fa negli altri paesi.
Quanto al freno delle importazioni di cui parlavo, ho capito che dobbiamo incentivare le nostre imprese ad innovare ma diminuire la domanda di prodotti prodotti con sfruttamento (e non escludo le multinazionali) etc. è quantomeno un dovere etico.
Non ho letto tutto il resto, ma vedo che si parla anche di moda. È un settore di cui in Italia si parla molto, troppo. È il settore che ottiene i maggiori profitti creando sostanzialmente zero innovazione e il fatto che da noi sia così importante non è cosa di cui andare fieri.
Sì, so benissimo che i nostri conti pubblici sono in rosso, ma da qualche parte bisogna partire per rompere il feedback positivo a cui è soggetto il problema in questione. → La strada della politica fiscale espansiva ci è preclusa (a meno di un cambiamento della politica economica europea, improbabile; lo stesso vale per un eventuale avanzo di bilancio, che andrebbe utilizzato per diminuire il debito pubblico: mi spiace, ma io penso al lungo periodo, e l’abbattimento del debito pubblico, o quanto meno la sua ristrutturazione è da fare subito – senza dimenticare che nell’ultima tornata di BTP -quindi a lunga scadenza- è aumentato lo spread con i titoli a uguale scadenza tedeschi (i Bund), infatti per farli acquistare dagli investitori è stato necessario aumentare il premio per il rischio, e quindi gli interessi da pagare – se non si è capito che ho detto, appena avrò tempo ti spiegherò meglio);
A meno che non siano nel settore ICT non possono creare innovazione → innovazione non significa inventare qualcosa di nuovo, ma anche migliorare un processo produttivo o aggiungere qualcosa di nuovo a un prodotto esistente (esempio: la GEOX s’inventa la membrana traspirante, la FIAT introduce un macchinario che dimezza il tempo per infilare una lampadina…tutte cose che accrescono la produttività e che innovano);
A fronte di un costo del lavoro troppo elevato l’unica cosa che possono fare è lasciare a casa i lavoratori → non è l’unica cosa da fare, ma la cosa più semplice (su un manga un uomo saggio diceva che non esistono strade facili, ma solo strade per codardi). Altrove, dove esiste una maggiore intraprendenza e una diversa struttura di mercato, aziende in difficoltà o spariscono o si fondono o vengono acquistate, al fine di acquisire economie di scale e/o di scopo; ma questo è un problema degli imprenditori che non vogliono farlo e che vogliono rimanere P o MI per sempre (o, al limite, per carenze strutturale cui il governo deve porre rimedio).
Solo degli sgravi fiscali, IMHO, permetterebbero a molte di queste di continuare a funzionare. → Anche questa è la strada più facile: io sono d’accordo, ma lo sgravio va condizionato, e non deve finire nelle tasche degli azionisti (in generale, bisognerebbe tassare il capitale immobile, ma c’è sempre il rischio che questi soldi escano dal Paese, come ho già detto sopra è una tematica assai complessa).
Le aziende che possono e devono investire in R&D sono le grandi aziende. → Noi abbiamo un grosso deficit: non abbiamo ricerca di base, che è di competenza dello Stato. Le imprese fanno ricerca applicata, perché i benefici compensano i costi. Così accade altrove, ma non in Italia, dove la ricerca vede i propri fondi continuamente tagliati. In questo modo le imprese non hanno ricerca di base da applicare e il risultato è che non innovano.
Quanto al freno delle importazioni di cui parlavo, ho capito che dobbiamo incentivare le nostre imprese ad innovare ma diminuire la domanda di prodotti prodotti con sfruttamento (e non escludo le multinazionali) etc. è quantomeno un dovere etico. → Certamente è un dovere etico, ma nel lungo periodo ci rimettiamo: la concorrenza è un patrimonio da salvaguardare, perché costringe le imprese ad innovare per rimanere a galla. Il fallimento delle aziende è brutto, ma è fisiologico per far rafforzare il tessuto economico. Imprese mantenute in coma non producono e fanno solo peggiorare la situazione, succhiando denaro (casse integrazione, sussidi, sgravi). Le imprese devono reagire, ma senza attaccarsi alla mammella dello Stato: se non imparano a brucare, questi vitelli la seccheranno, poi se la mangeranno per la fame e poi moriranno di fame essi stessi. Tra l’altro penso che in un tempo relativamente breve anche i Paesi “poco etici” dovranno adeguarsi e dare un salario decente ai dipendenti.
Non ho letto tutto il resto, ma vedo che si parla anche di moda. È un settore di cui in Italia si parla molto, troppo. È il settore che ottiene i maggiori profitti creando sostanzialmente zero innovazione e il fatto che da noi sia così importante non è cosa di cui andare fieri. → Applausi. 🙂 Ma comunque non è il solo settore (c’è anche la TV, che da noi si limita ad acquistare format di successo all’estero, giusto per fare un esempio).
Sì, so benissimo che i nostri conti pubblici sono in rosso, ma da qualche parte bisogna partire per rompere il feedback positivo a cui è soggetto il problema in questione. → La strada della politica fiscale espansiva ci è preclusa (a meno di un cambiamento della politica economica europea, improbabile; lo stesso vale per un eventuale avanzo di bilancio, che andrebbe utilizzato per diminuire il debito pubblico: mi spiace, ma io penso al lungo periodo, e l’abbattimento del debito pubblico, o quanto meno la sua ristrutturazione è da fare subito – senza dimenticare che nell’ultima tornata di BTP -quindi a lunga scadenza- è aumentato lo spread con i titoli a uguale scadenza tedeschi (i Bund), infatti per farli acquistare dagli investitori è stato necessario aumentare il premio per il rischio, e quindi gli interessi da pagare – se non si è capito che ho detto, appena avrò tempo ti spiegherò meglio);
A meno che non siano nel settore ICT non possono creare innovazione → innovazione non significa inventare qualcosa di nuovo, ma anche migliorare un processo produttivo o aggiungere qualcosa di nuovo a un prodotto esistente (esempio: la GEOX s’inventa la membrana traspirante, la FIAT introduce un macchinario che dimezza il tempo per infilare una lampadina…tutte cose che accrescono la produttività e che innovano);
A fronte di un costo del lavoro troppo elevato l’unica cosa che possono fare è lasciare a casa i lavoratori → non è l’unica cosa da fare, ma la cosa più semplice (su un manga un uomo saggio diceva che non esistono strade facili, ma solo strade per codardi). Altrove, dove esiste una maggiore intraprendenza e una diversa struttura di mercato, aziende in difficoltà o spariscono o si fondono o vengono acquistate, al fine di acquisire economie di scale e/o di scopo; ma questo è un problema degli imprenditori che non vogliono farlo e che vogliono rimanere P o MI per sempre (o, al limite, per carenze strutturale cui il governo deve porre rimedio).
Solo degli sgravi fiscali, IMHO, permetterebbero a molte di queste di continuare a funzionare. → Anche questa è la strada più facile: io sono d’accordo, ma lo sgravio va condizionato, e non deve finire nelle tasche degli azionisti (in generale, bisognerebbe tassare il capitale immobile, ma c’è sempre il rischio che questi soldi escano dal Paese, come ho già detto sopra è una tematica assai complessa).
Le aziende che possono e devono investire in R&D sono le grandi aziende. → Noi abbiamo un grosso deficit: non abbiamo ricerca di base, che è di competenza dello Stato. Le imprese fanno ricerca applicata, perché i benefici compensano i costi. Così accade altrove, ma non in Italia, dove la ricerca vede i propri fondi continuamente tagliati. In questo modo le imprese non hanno ricerca di base da applicare e il risultato è che non innovano.
Quanto al freno delle importazioni di cui parlavo, ho capito che dobbiamo incentivare le nostre imprese ad innovare ma diminuire la domanda di prodotti prodotti con sfruttamento (e non escludo le multinazionali) etc. è quantomeno un dovere etico. → Certamente è un dovere etico, ma nel lungo periodo ci rimettiamo: la concorrenza è un patrimonio da salvaguardare, perché costringe le imprese ad innovare per rimanere a galla. Il fallimento delle aziende è brutto, ma è fisiologico per far rafforzare il tessuto economico. Imprese mantenute in coma non producono e fanno solo peggiorare la situazione, succhiando denaro (casse integrazione, sussidi, sgravi). Le imprese devono reagire, ma senza attaccarsi alla mammella dello Stato: se non imparano a brucare, questi vitelli la seccheranno, poi se la mangeranno per la fame e poi moriranno di fame essi stessi. Tra l’altro penso che in un tempo relativamente breve anche i Paesi “poco etici” dovranno adeguarsi e dare un salario decente ai dipendenti.
Non ho letto tutto il resto, ma vedo che si parla anche di moda. È un settore di cui in Italia si parla molto, troppo. È il settore che ottiene i maggiori profitti creando sostanzialmente zero innovazione e il fatto che da noi sia così importante non è cosa di cui andare fieri. → Applausi. 🙂 Ma comunque non è il solo settore (c’è anche la TV, che da noi si limita ad acquistare format di successo all’estero, giusto per fare un esempio).