Debiti e poca competitività: Italia in trappola

Per Diritto di Critica

Dal 26 al 30 gennaio si è svolto a Davos l’incontro annuale del World Economic Forum, una serie di conferenze e incontri cui partecipano importanti capitani d’industria, politici, esperti economici e giornalisti, con lo scopo di illustrare ricerche e opinioni circa le condizioni economiche, politiche e sociali del mondo.

L’incontro di quest’anno si è caratterizzato per una sessione a porte chiuse dedicata all’Italia e in particolare ai suoi problemi. La discussione, che partiva da un esame della situazione italiana nei confronti del mondo, si è presto dedicata alla ricerca delle cause degli ormai riconosciuti declino e marginalità che caratterizzano il Belpaese.

Gli esperti, riporta la Repubblica, sono concordi nell’affermare che la causa principale di questo declino è l’immobilismo della politica, che da dieci anni è ben al corrente delle riforme che si dovrebbero fare, ma che esse non vengono progettate o messe in cantiere, e che il dibattito politico viene spesso superato dalle chiacchiere e dagli scandali che da sempre coinvolgono il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e di cui il caso Ruby rappresenta solo l’ultimo (non dimentichiamo, ad esempio, lo scandalo Mills, in cui Berlusconi è stato riconosciuto, sia pure indirettamente, di corruzione). Si contesta, in altre parole, lo svuotamento dell’agenda politica a favore di quella giudiziaria del premier, oltre alla presenza di un‘opposizione costantemente priva di bussola.

La risposta da parte italiana non è giunta dalla politica: Giulio Tremonti, pur presente a Davos, ha disertato la sessione. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha affermato che il tessuto industriale è forte, pur confermando buona parte delle tesi esposte, in particolare la marginalità dell’Italia nei confronti delle questioni proposte a Davos.

Nulla di nuovo, insomma: abbiamo spesso parlato su queste pagine degli handicap italiani. Ciò che bisogna sottolineare, però, è la totale inadeguatezza della nostra classe dirigente politica, che ancora non riconosce che siamo vicini al punto di non ritorno. Il problema è sempre quello, puro e semplice: la mancanza di crescita dovuta alla scarsa competitività del sistema Italia, che compete con la Cina e non con il mondo avanzato, e poco conta se le esportazioni italiane sono seconde solo a quelle tedesche, poiché si tratta di settori tradizionali, poveri (l’esempio principe è l’industria tessile di Prato, emergenza denunciata da almeno sette anni).

La tragedia è ben sottolineata da un editoriale di Wolfgang Münchau sul Sole 24 Ore dell’11 gennaio scorso:

Per affrontare la scarsa competitività, l’Europa meridionale, Italia inclusa, avrebbe bisogno di una deflazione conclamata. In alcuni casi, prezzi e salari dovrebbero subire una riduzione del 30 per cento, per riallinearsi con i livelli dell’Eurozona settentrionale. Tuttavia, la deflazione aumenterebbe il valore reale del debito. Sembra ragionevole pensare che i paesi periferici riescano ad affrontare il problema della competitività oppure quello del debito, ma di sicuro non tutti e due insieme, senza il ricorso alla svalutazione o all’insolvenza.

Lo scenario proposto da Münchau è difficilmente evitabile, ma è possibile evitare almeno le lacrime e il sangue ponendo in essere riforme dolorose che sventerebbero quantomeno la tragedia finale.

Va però utilizzata una certa dose di realismo. Si pensi alle piccole, ma sacrosante riforme fatte da Bersani nella scorsa legislatura, le cosiddette lenzuolate che dovevano aumentare la concorrenza, che hanno incontrato l’opposizione delle più o meno medievali corporazioni, dai farmacisti, agli avvocati e ai tassinari, e che l’attuale governo ha scelleratamente eliminato a fini elettorali, dimenticando l’interesse del Paese.

Il governo Berlusconi ha evitato di trattare il problema principale: la scarsa competitività è dovuta alla scarsa o nulla concorrenza del tessuto economico italiano, che è invece caratterizzato da orticelli più o meno grandi che ognuno difende strenuamente, e che il governo non può o non vuole mettere in competizione (il compito di un governo è fare il bene del Paese andando oltre gli egoismi degli orticelli). Intanto il governo si diletta con riforme ectoplasmatiche, come il federalismo fiscale, oppure discutendo vere e proprie assurdità, pensando, ad esempio, di imporre un’imposta patrimoniale in un Paese in cui vi è la pressione fiscale complessiva più alta dell’universo, come scrive Arrigo su Chicago Blog.

La non-soluzione della patrimoniale somiglia, afferma Arrigo, a quella del tizio che va in banca a chiedere un prestito, offrendo come garanzia la casa del suo vicino: Tremonti vorrebbe offrire come garanzia ai mercati le case in cui abitiamo. Ma anche se si utilizzasse la patrimoniale, i problemi verrebbero risolti? Nemmeno: il debito pubblico ritroverebbe un po’ di fiato, ma il Paese rimarrebbe nelle mani delle élites politiche che da sinistra, ma soprattutto da destra, visto che governa da dieci anni e si rifà spesso alla fallimentare esperienza Craxi che tutto questo ha causato.

In altre parole, una volta che si è tamponato il problema dell’insolvenza, chi ci assicura che questa classe politica sia in grado di attuare le riforme che servono a ridare slancio alla competitività (tra l’altro ulteriormente depressa dalla patrimoniale), considerando che si tratta della stessa classe politica che governa questo Paese da quasi vent’anni e che da quasi vent’anni non ha saputo resuscitare l’Italia dalla sua strutturale debolezza? Chi ci dice che dopo la patrimoniale la politica non continuerà ad ignorare i problemi del Paese, la disoccupazione, il precariato, la fame di giustizia (sia nelle aule dei tribunali che quella sociale), il sempre crescente costo della vita, la corruzione, la criminalità che dilaga strisciando nelle istituzioni? È come riproporre a livello nazionale la scandalosa gestione del caso Alitalia, chiosa Arrigo con l’ennesima efficacissima metafora: far pagare la Bad Italy ai contribuenti e affidare la Good Italy a quelli che hanno causato la rovina del Paese.

È questo il problema che un’opinione pubblica informata, sia di destra che di sinistra, dovrebbe porsi, ma che invece non si pone poiché il clima di scontro che si è creato autoalimenta la forza della classe politica, che non riesce a superare gli ormai vecchi e fallimentari Berlusconi e Fini o i fallimentari e vecchi D’Alema e Veltroni (tutti leader nazionali dal 1993, e ce ne sono pure di più vecchi).

Con queste premesse, finiremo in una trappola che ci siamo costruiti da soli.

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