Ad Annozero si parla di Prato, del tessile, ma il ritardo è già di quattro anni

Nel 2005 lessi un libro che era stato selezionato per il premio Strega: si tratta de “L’età dell’oro” di Edoardo Nesi.

Il libro era ambientato nel 2010 e parlava della distruzione economica di Prato dopo il crollo dell’industria sulla quale si regge, ovvero il tessile, a causa della concorrenza cinese.

Oggi, guardando le testimonianze rilasciate dai pratesi ad Annozero, mi rendo conto che quel libro era stato terribilmente profetico.

Ma lassù ai piani alti nessuno se n’era accorto (chissà quanti leggono libri, in Parlamento…).

Il libro, però, non si fermava qui: uscendo fuori dalla dimensione provinciale, Nesi descrive l’Italia intera come un Paese terribilmente in declino, dove non solo il tessile di Prato, ma le piccole imprese in tutta Italia risultano essere sopraffatte dalla concorrenza internazionale.

Lassù ai piani alti devono rendersi conto che il sistema economico italiano è totalmente da rifarsi: noi non siamo abituati alla concorrenza, ma ciò è assurdo in un mondo sempre più globalizzato.

Il problema non sono i cinesi ((Concorrenza sleale a parte.)) : siamo noi. Dobbiamo renderci conto che sacrificare lo sviluppo e l’innovazione per difendere il proprio orticello, sia a livello Telecom Italia che a livello salumeria di quartiere, non ha più senso.

Si difendono modelli ormai fuori dal tempo, la cui crisi viene aggravata (ma non causata) dai cinesi sfruttati che rivendono i loro prodotti alle aziende italiane che spacciano quei prodotti per made in Italy. I cinesi sono abilissimi a copiare, e la difesa del vantaggio competitivo (ovvero il vantaggio che genera profitto) comporta anche rendere difficile la copia. Alla fine, tuttavia, le imprese imitatrici arrivano e l’unico modo per sopravvivere è inventare qualcosa di nuovo che non possa essere copiato.

Ma se uno non innova e continua a produrre come faceva il nonno che fondò l’azienda, arrivano i cinesi che fanno come fai tu, il profitto sparisce e si affonda. Si chiama rendita schumpeteriana.

Innovare, però, richiede denaro, denaro che solo le imprese più grandi possono avere: da noi, però, le imprese si guardano con sospetto l’un l’altra, si accordano sulla linea del divide et impera, invece di aiutarsi a vicenda.

Il libro di Nesi, proprio perché profetizza un futuro ormai vicino, è consigliatissimo perché riusciamo a renderci conto della nostra miseria. Sperando, tuttavia, che le sue profezie non si avverino. ((L’unica profezia che sbaglia riguarda la fecondazione assistita: non poteva immaginare che l’anno successivo il Vaticano il governo Berlusconi l’avrebbe cancellata.))

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10 Comments

  1. Too, il problema è che semplicemente innovare richiede un’evoluzione tecnologica e soldi; e questo con la piccola impresa italiana non si può proprio fare. La spiegazione la lascio ad un episodio dei Simpson’s: (il macellaio del paese di Salciccia, nella ridente Toscana): ”La mì famiglia sono 600 anni che macella la stessa famiglia di maiali_sono perseguitato dall’incubo di 10.000 maiali sgozzati’.

    Insomma, sarebbe un controsenso abbandonare, per l’Italietta, un modello economico che attira i Simpson’s di tutto il mondo, che vengono qui magari per comprare le magliette Made in Chinatown errh Prato errhh Italy.

    I Cinesi riescono a clonare anche le Ferrari e il Parmigiano, che speranze avrebbe Mario Rossi con la sua azienda vinicola di 1 ettaro di fare qualcosa? Espandersi e comprarne altri 560?

    Ci si potrebbe chiedere piuttosto, come hanno fatto ieri sera, qui prodest. E come mai non solo 4.000 aziende cinesi sono arrivate a Prato senza che ‘nessuno se ne accorgesse’ (ma come, Tvemonti non aveva pvofetizzato la concorrenza cinese?) e a chi vendono le loro magliette da un euro. Perché non è che dispiaccia poi all’italiano medio avere al mercato un cappotto da 16 euro anziché 180. Anche questo è un altro corno del problema. I Pratesi possono affondare, ma a chi importa se il resto d’italia ha dei capi d’abbigliamento per coprirsi spendendo pochi euvi?

    Insomma, il problema è come governare questa collisione tra i mondi. E’ vero, è colpa nostra (nonostante quel torso di Castelli abbia dato una visione ‘leghista’ del reportage), ma in un mondo selvaggiamente globalizzato, in cui i soldi (che fanno i Cinesi qui in Italia) possono viaggiare allegramente ovunque, che vengono recuperati 16 mln di euro su 100 mld di evasione fiscale e i cantieri non si fermano nemmeno dopo che vengono beccati dalla Finanza (grazie alla cveatività di Tvemonti e Bvunetta), che viene elogiato il lavoro nero (e le morti bianche) come ‘economia di sussistenza’, che vogliamo pretendere?

    Allora bisognerebbe rifare le regole e per bene, per non ritrovarci così messi male. Bisognerebbe chiederci come mai a S.Marino puoi ordinare 100 DVD per 20-30 euro mentre alla Coop li trovi a 1,5. Chi non paga le tasse? I dazi? A chi importa di controllare il flusso di denaro espatriato illegalmente in paradisi fiscali? A quello che si è fatto 180 mln di euro con dividendi azionari qualche giorno fa? No di sicuro. Qui bisognerebbe non dico abolire la globalizzazione, ma non rendere tutti i Paesi dei vasi comunicanti, in cui quel che conta è il lavoro a costi cinesi, e magari all’indomani nordcoreani (dove pagare qualcuno significa 11 euro al mese, sicché la Cina là fa ‘delocalizzazione’ come gli USA la fanno in Cina).

    In casa mia ho una cyclette chiamata Vitality, è fatta in Cina e costa 100 euro; il vecchio stereo Schaub-Lorentz del ’96 è fatto in Cina. Il monitor LCD che ho davanti l’hanno fatto in Cina e poi assemblato in Italia. Sarebbe meglio se tutto fosse prodotto in Italia con diritti per i lavoratori e orari e paghe decenti? Certo, ma se poi vai a comprare xxx prodotti e li paghi la metà se non un decimo, allora è chiaro che l’alternativa è allettante.

    Ma ovviamente si scivola verso in basso, e questo manda in corto-circuito la società. Se si perde il lavoro poi non si pagano nemmeno le merci cinesi. Ma come si fa, tra un Csx che parla di Cina come di terra d’opportunità e un Cdx che parla di protezionismo? Con la Cina che mette sotto embargo chiunque stringa la mano al Dalai Lama è difficile.

    Insomma, sarebbe il caso di riflettere e cambiare le regole del gioco, ma questo vale per tutto, da Catania (v.Report domenica scorsa) ai Cinesi di Prato, ai cani randagi. Tutte facce di una sola medaglia. Quella della miope e corrotta condotta politica ed economica, che ci fa reagire, questo sì, al pericolo solo molto dopo che non si può evitare lo sfacelo. Una brutta storia.

  2. Too, il problema è che semplicemente innovare richiede un’evoluzione tecnologica e soldi; e questo con la piccola impresa italiana non si può proprio fare. La spiegazione la lascio ad un episodio dei Simpson’s: (il macellaio del paese di Salciccia, nella ridente Toscana): ”La mì famiglia sono 600 anni che macella la stessa famiglia di maiali_sono perseguitato dall’incubo di 10.000 maiali sgozzati’.

    Insomma, sarebbe un controsenso abbandonare, per l’Italietta, un modello economico che attira i Simpson’s di tutto il mondo, che vengono qui magari per comprare le magliette Made in Chinatown errh Prato errhh Italy.

    I Cinesi riescono a clonare anche le Ferrari e il Parmigiano, che speranze avrebbe Mario Rossi con la sua azienda vinicola di 1 ettaro di fare qualcosa? Espandersi e comprarne altri 560?

    Ci si potrebbe chiedere piuttosto, come hanno fatto ieri sera, qui prodest. E come mai non solo 4.000 aziende cinesi sono arrivate a Prato senza che ‘nessuno se ne accorgesse’ (ma come, Tvemonti non aveva pvofetizzato la concorrenza cinese?) e a chi vendono le loro magliette da un euro. Perché non è che dispiaccia poi all’italiano medio avere al mercato un cappotto da 16 euro anziché 180. Anche questo è un altro corno del problema. I Pratesi possono affondare, ma a chi importa se il resto d’italia ha dei capi d’abbigliamento per coprirsi spendendo pochi euvi?

    Insomma, il problema è come governare questa collisione tra i mondi. E’ vero, è colpa nostra (nonostante quel torso di Castelli abbia dato una visione ‘leghista’ del reportage), ma in un mondo selvaggiamente globalizzato, in cui i soldi (che fanno i Cinesi qui in Italia) possono viaggiare allegramente ovunque, che vengono recuperati 16 mln di euro su 100 mld di evasione fiscale e i cantieri non si fermano nemmeno dopo che vengono beccati dalla Finanza (grazie alla cveatività di Tvemonti e Bvunetta), che viene elogiato il lavoro nero (e le morti bianche) come ‘economia di sussistenza’, che vogliamo pretendere?

    Allora bisognerebbe rifare le regole e per bene, per non ritrovarci così messi male. Bisognerebbe chiederci come mai a S.Marino puoi ordinare 100 DVD per 20-30 euro mentre alla Coop li trovi a 1,5. Chi non paga le tasse? I dazi? A chi importa di controllare il flusso di denaro espatriato illegalmente in paradisi fiscali? A quello che si è fatto 180 mln di euro con dividendi azionari qualche giorno fa? No di sicuro. Qui bisognerebbe non dico abolire la globalizzazione, ma non rendere tutti i Paesi dei vasi comunicanti, in cui quel che conta è il lavoro a costi cinesi, e magari all’indomani nordcoreani (dove pagare qualcuno significa 11 euro al mese, sicché la Cina là fa ‘delocalizzazione’ come gli USA la fanno in Cina).

    In casa mia ho una cyclette chiamata Vitality, è fatta in Cina e costa 100 euro; il vecchio stereo Schaub-Lorentz del ’96 è fatto in Cina. Il monitor LCD che ho davanti l’hanno fatto in Cina e poi assemblato in Italia. Sarebbe meglio se tutto fosse prodotto in Italia con diritti per i lavoratori e orari e paghe decenti? Certo, ma se poi vai a comprare xxx prodotti e li paghi la metà se non un decimo, allora è chiaro che l’alternativa è allettante.

    Ma ovviamente si scivola verso in basso, e questo manda in corto-circuito la società. Se si perde il lavoro poi non si pagano nemmeno le merci cinesi. Ma come si fa, tra un Csx che parla di Cina come di terra d’opportunità e un Cdx che parla di protezionismo? Con la Cina che mette sotto embargo chiunque stringa la mano al Dalai Lama è difficile.

    Insomma, sarebbe il caso di riflettere e cambiare le regole del gioco, ma questo vale per tutto, da Catania (v.Report domenica scorsa) ai Cinesi di Prato, ai cani randagi. Tutte facce di una sola medaglia. Quella della miope e corrotta condotta politica ed economica, che ci fa reagire, questo sì, al pericolo solo molto dopo che non si può evitare lo sfacelo. Una brutta storia.

  3. Ieri sera mi sono guardato un bel po’ di “Anno zero”. No, non tutto…: ad un certo punto mi sono arrabbiato e sono andato via. E’ stato quando Ruotolo, all’interno del fortilizio dell’impresa buona (con tanto di imprenditore buono) ha indicato il laboratorio cinese…: “…eccoli lì, loro lavorano, loro…”. Dopo un po’ sono tornato ed il seguito non è stato migliore. Provo a spiegarmi: in ogni trasmissione televisiva (come, più sfumatamente, in ogni forma di comunicazione) c’è un messaggio “forte”, quello che rimane; poi c’è il contorno, che, in dosi differenti, serve a fare l’ “approfondimento”, il “dibattito”, etc. Ora il messaggio “forte” della puntata era: “la colpa è dei cinesi, quelli che hanno rovinato laboriosi ed onesti imprenditori e poveri operai. A questo punto non resta altro che far intervenire lo stato per dar soldi alle aziende pratesi (con relativi dipendenti) per salvarle, se non altro perché c’è un’emergenza”. Su questo erano d’accordo destra e sinistra, indipendentemente da recriminazioni reciproche su “controllo dell’illegalità”, “dove prendere i soldi”, etc. Confesso che a me sembra una lettura della realtà rozza, scoopistica e, quel che è peggio, che non offre alcuna traccia di soluzione e cerca il capro espiatorio, si chiami stato o cinesi. Ancora una volta l’ “emergenza”.
    Pur essendo un semplice passante, uno di quelli che è invisibile lì sullo sfondo, una persona che non ha nemmeno fatto chissà quali approfondimenti, provo a dire qualcosa di diverso.
    Per iniziare il mio sintetico discorso, credo intanto non bisogna dimenticare che c’è una “crisi” mondiale che in Italia trova condizioni di sommersa debolezza. Volendo sintetizzare il “caso Prato” (credo rappresentativo di una realtà più vasta), potrei dire che il presentarlo fotograficamente, qui ed ora, può far colpo sul telespettatore, ma non lo analizza né offre reali stimoli di fattiva riflessione. I cinesi a Prato sono tanti perché Prato è sempre stata “cinese”. Prima i cinesi erano i pratesi ed immigrati italiani. Per fortuna ho verificato che anche qualcun altro ricorda la Prato di una quindicina di anni addietro, che nonè stata una mia allucinazione: il rumore dei telai era dovunque, in scantinati sotto livello strada, garage, appartamenti, capannoni simili a capanne. Controlli e condizioni di lavoro praticamente impraticabili: una miriade di conto-terzisti a cui si davano commissioni “volanti”, “fammi tot pezze di tessuto per domani… senno’ vado da un altro…”, lavoro a ciclo continuo di “artigiani” che campavano di commesse di grossi committenti, lavorando a ciclo continuo ed in famiglia. Controlli? Vuoi perseguitare il nerbo dell’industria italica? Gli incidenti sul lavoro erano la norma: nel film “Madonna che silenzio c’è stasera” di Francesco Nuti c’è il protagonista che guarda con una certa preoccupazione al fatto che a molti mancano dita e qualcosa in più ed inoltre sono tutti duri di orecchie e la cosa non viene dettagliata oltre, semplicemente perché non c’era bisogno di tante spiegazioni. Si sapeva tutti. Il “sistema Prato” (di cui ci si vantava venisse studiato all’estero…), flessibile, agile ed al contempo paternalista, con tonnellate di straordinari e prebende varie “regalate” (rigorosamente al nero), produceva tessuti, una parte di una certa qualità ed in altra parte “cardato”, lane rigenerate, etc. Il tutto reggeva soprattutto sulla velocità, bassi costi di produzione, “agilità” imprenditoriale. Chiunque avesse più fame dei pratesi l’avrebbe potuto fare. Ed arrivano i cinesi. Ma prima dei cinesi erano già arrivati (magari senza fisicamente venire qui) i tunisini, l’europa dell’est, addirittura l’america latina e gli iberici (a cui i pratesi si premuravano di vendere macchine tessili usate con annesso istruttore italiano che in qualche settimana insegnava a “far andare i telai”).
    Ma c’è un altro aspetto ancora: il WTO, contro cui ora si scagliano tutti. Qui il discorso diventerebbe lungo, ma preferisco sottolineare un solo aspetto: sono passati, ad oggi, otto anni dall’entrata della Cina nel WTO. Otto anni. Vendite e potenza di Pc, telefonini, etc. sono schizzate in alto, tutti felici (siamo un popolo di cellularizzati, ai vertici delle classifiche mondiali). La mitica piccola e media industria ha stiracchiato per un po’ ancora, con scarpe, commesse della grande industria, e telai. Si iniziava a parlare di “società della conoscenza”, di innovazione, di hi-tech, ma niente di concreto. A Prato si moltiplicavano ditte edili (siamo credo al 28% delle aziende) e sportelli bancari o finanziarie. Si investiva nel mattone e titoli. Basta farsi una passeggiata, in centro o periferia: nuove case e banche dovunque. La barca andava e, italianisissimamente, “finchè la barca va…”. Chi ha investito in formazione e innovazione? Basta lavura’? Tutti, in pratica, urlavano all’ “emergenza”, alla politica del giorno per giorno. I cinesi di Prato lavoravano per un tozzo di pane ai margini della “filiera”. Poi hanno preso in mano l’intera filiera. Per un tozzo di pane. Ora comprano i semi-lavorati in Cina. I pratesi fittano capannoni, appartamenti, consulenze a prezzi esorbitanti. I cinesi pagano in contanti. Cash (mi sembra si dica così). Per otto anni. Ogni tanto, giusto per gradire, si mugugnava contro i cinesi e si parlava di “innovazione”, territorio, prodotti tipici, ma di fatto nessuno manco ci credeva.
    Ora il casino è scoppiato. Ora si invoca cassa integrazione e blocco dei crediti bancari. Più soldi per continuare come prima. Anche ora: emergenza.
    Qui, nel frattempo, ci mettiamo ad organizzarci per i pogrom anti-cinesi. Tutti insieme, imprenditori e sindacati.

    Noterella
    Secondo il locale giornale “Il Tirreno” ci sono un paio di simpatici “dietro le quinte”
    – Il magazzino “cinese” inquadrato (“…loro lavorano”… con tanto di sgranatura dell’immagine, come e fosse stata avventurosamente carpita da un eroico reporter di guerra…) non è cinese, ma italiano. Il capannone cinese c’era, ma alcune centinaia di metri più in la’, e la distanza non avrebbe permesso l’ effettaccio. Resta la curiosità: ma nel magazzino cinese vero, le luci erano accese o spente in quel momento? In quello italiano chi aveva acceso le luci e perchè?
    – Quando l’imprenditore Cecchi (quello che si brancicava Ruotolo, amico di Santoro, amico di tutti) parla male del made in Italy e delle aziende che lo fanno in Tunisia, in prima fila c’era un industriale pratese che fabbrica in Tunisia e che ha subito un processo per il marchio “made in Italy”.
    Specifico: “Il Tirreno” non è una testata xenofila o no-global. Di solito pubblica titolacci tipo “Ancora mistero sulla morte delle muche in Calvana” o “Sicurezza: paura a Prato” et similia

  4. Ieri sera mi sono guardato un bel po’ di “Anno zero”. No, non tutto…: ad un certo punto mi sono arrabbiato e sono andato via. E’ stato quando Ruotolo, all’interno del fortilizio dell’impresa buona (con tanto di imprenditore buono) ha indicato il laboratorio cinese…: “…eccoli lì, loro lavorano, loro…”. Dopo un po’ sono tornato ed il seguito non è stato migliore. Provo a spiegarmi: in ogni trasmissione televisiva (come, più sfumatamente, in ogni forma di comunicazione) c’è un messaggio “forte”, quello che rimane; poi c’è il contorno, che, in dosi differenti, serve a fare l’ “approfondimento”, il “dibattito”, etc. Ora il messaggio “forte” della puntata era: “la colpa è dei cinesi, quelli che hanno rovinato laboriosi ed onesti imprenditori e poveri operai. A questo punto non resta altro che far intervenire lo stato per dar soldi alle aziende pratesi (con relativi dipendenti) per salvarle, se non altro perché c’è un’emergenza”. Su questo erano d’accordo destra e sinistra, indipendentemente da recriminazioni reciproche su “controllo dell’illegalità”, “dove prendere i soldi”, etc. Confesso che a me sembra una lettura della realtà rozza, scoopistica e, quel che è peggio, che non offre alcuna traccia di soluzione e cerca il capro espiatorio, si chiami stato o cinesi. Ancora una volta l’ “emergenza”.
    Pur essendo un semplice passante, uno di quelli che è invisibile lì sullo sfondo, una persona che non ha nemmeno fatto chissà quali approfondimenti, provo a dire qualcosa di diverso.
    Per iniziare il mio sintetico discorso, credo intanto non bisogna dimenticare che c’è una “crisi” mondiale che in Italia trova condizioni di sommersa debolezza. Volendo sintetizzare il “caso Prato” (credo rappresentativo di una realtà più vasta), potrei dire che il presentarlo fotograficamente, qui ed ora, può far colpo sul telespettatore, ma non lo analizza né offre reali stimoli di fattiva riflessione. I cinesi a Prato sono tanti perché Prato è sempre stata “cinese”. Prima i cinesi erano i pratesi ed immigrati italiani. Per fortuna ho verificato che anche qualcun altro ricorda la Prato di una quindicina di anni addietro, che nonè stata una mia allucinazione: il rumore dei telai era dovunque, in scantinati sotto livello strada, garage, appartamenti, capannoni simili a capanne. Controlli e condizioni di lavoro praticamente impraticabili: una miriade di conto-terzisti a cui si davano commissioni “volanti”, “fammi tot pezze di tessuto per domani… senno’ vado da un altro…”, lavoro a ciclo continuo di “artigiani” che campavano di commesse di grossi committenti, lavorando a ciclo continuo ed in famiglia. Controlli? Vuoi perseguitare il nerbo dell’industria italica? Gli incidenti sul lavoro erano la norma: nel film “Madonna che silenzio c’è stasera” di Francesco Nuti c’è il protagonista che guarda con una certa preoccupazione al fatto che a molti mancano dita e qualcosa in più ed inoltre sono tutti duri di orecchie e la cosa non viene dettagliata oltre, semplicemente perché non c’era bisogno di tante spiegazioni. Si sapeva tutti. Il “sistema Prato” (di cui ci si vantava venisse studiato all’estero…), flessibile, agile ed al contempo paternalista, con tonnellate di straordinari e prebende varie “regalate” (rigorosamente al nero), produceva tessuti, una parte di una certa qualità ed in altra parte “cardato”, lane rigenerate, etc. Il tutto reggeva soprattutto sulla velocità, bassi costi di produzione, “agilità” imprenditoriale. Chiunque avesse più fame dei pratesi l’avrebbe potuto fare. Ed arrivano i cinesi. Ma prima dei cinesi erano già arrivati (magari senza fisicamente venire qui) i tunisini, l’europa dell’est, addirittura l’america latina e gli iberici (a cui i pratesi si premuravano di vendere macchine tessili usate con annesso istruttore italiano che in qualche settimana insegnava a “far andare i telai”).
    Ma c’è un altro aspetto ancora: il WTO, contro cui ora si scagliano tutti. Qui il discorso diventerebbe lungo, ma preferisco sottolineare un solo aspetto: sono passati, ad oggi, otto anni dall’entrata della Cina nel WTO. Otto anni. Vendite e potenza di Pc, telefonini, etc. sono schizzate in alto, tutti felici (siamo un popolo di cellularizzati, ai vertici delle classifiche mondiali). La mitica piccola e media industria ha stiracchiato per un po’ ancora, con scarpe, commesse della grande industria, e telai. Si iniziava a parlare di “società della conoscenza”, di innovazione, di hi-tech, ma niente di concreto. A Prato si moltiplicavano ditte edili (siamo credo al 28% delle aziende) e sportelli bancari o finanziarie. Si investiva nel mattone e titoli. Basta farsi una passeggiata, in centro o periferia: nuove case e banche dovunque. La barca andava e, italianisissimamente, “finchè la barca va…”. Chi ha investito in formazione e innovazione? Basta lavura’? Tutti, in pratica, urlavano all’ “emergenza”, alla politica del giorno per giorno. I cinesi di Prato lavoravano per un tozzo di pane ai margini della “filiera”. Poi hanno preso in mano l’intera filiera. Per un tozzo di pane. Ora comprano i semi-lavorati in Cina. I pratesi fittano capannoni, appartamenti, consulenze a prezzi esorbitanti. I cinesi pagano in contanti. Cash (mi sembra si dica così). Per otto anni. Ogni tanto, giusto per gradire, si mugugnava contro i cinesi e si parlava di “innovazione”, territorio, prodotti tipici, ma di fatto nessuno manco ci credeva.
    Ora il casino è scoppiato. Ora si invoca cassa integrazione e blocco dei crediti bancari. Più soldi per continuare come prima. Anche ora: emergenza.
    Qui, nel frattempo, ci mettiamo ad organizzarci per i pogrom anti-cinesi. Tutti insieme, imprenditori e sindacati.

    Noterella
    Secondo il locale giornale “Il Tirreno” ci sono un paio di simpatici “dietro le quinte”
    – Il magazzino “cinese” inquadrato (“…loro lavorano”… con tanto di sgranatura dell’immagine, come e fosse stata avventurosamente carpita da un eroico reporter di guerra…) non è cinese, ma italiano. Il capannone cinese c’era, ma alcune centinaia di metri più in la’, e la distanza non avrebbe permesso l’ effettaccio. Resta la curiosità: ma nel magazzino cinese vero, le luci erano accese o spente in quel momento? In quello italiano chi aveva acceso le luci e perchè?
    – Quando l’imprenditore Cecchi (quello che si brancicava Ruotolo, amico di Santoro, amico di tutti) parla male del made in Italy e delle aziende che lo fanno in Tunisia, in prima fila c’era un industriale pratese che fabbrica in Tunisia e che ha subito un processo per il marchio “made in Italy”.
    Specifico: “Il Tirreno” non è una testata xenofila o no-global. Di solito pubblica titolacci tipo “Ancora mistero sulla morte delle muche in Calvana” o “Sicurezza: paura a Prato” et similia

  5. Ottimo davvero a sapersi. Anche che c’é qualcuno che riesce a battermi sulla lunghezza dei post (===). Insomma si ritornà lì: qui prodest?

  6. Ottimo davvero a sapersi. Anche che c’é qualcuno che riesce a battermi sulla lunghezza dei post (===). Insomma si ritornà lì: qui prodest?

  7. Dal 20-3-09 al 14-12-09. Ora che Tettamanzi fa la sponda con la Lega per annacquare la crisi Pierluigi Ciofi forse riesce a capire le parole di Ferrero
    (ex operaio Fiat) decise ad articolare (ingiunto e deriso) almeno con il lavoro
    nero, ad esempio. (What else, direbbe Clooney).

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