Ieri il commissario europeo all’Economia Joaquin Almunia ha affermato che il costo del lavoro in Italia è troppo alto. La cosa può sembrare incredibile se pensiamo che gli stipendi degli italiani sono quelli che sono cresciuti meno e che quindi sono relativamente più bassi.
A prima vista può sembrare una contraddizione, ma in realtà la cosa è molto diversa e molto coerente.
In Italia gli stipendi sono in qualche modo indicizzati all’inflazione: questo vuol dire che se l’indice dei prezzi al consumo sale del 10%, gli stipendi saliranno pure del 10% (anche se l’aggiustamento non è immediato, ma frutto di contrattazione fra le parti sociali). Due osservazioni (che esprimono semplicemente il mio punto di vista): l’inflazione resa nota dall’ISTAT è basata su un campione di beni di largo consumo che però non tiene esattamente in conto le abitudini degli italiani (infatti molti cibi, come pane e pasta, sono aumentati molto più dell’inflazione – e ci sono anche oggetti che non vengono esattamente comprati spesso). Questo significa che l’aumento degli stipendi non compensa l’aumento dei prezzi, e quindi siamo effettivamente più poveri. Inoltre indicizzare i prezzi all’inflazione, anche se non automaticamente, avvia la cosiddetta spirale inflazionistica: se aumentiamo i salari del 10% per compensare l’inflazione del 10%, le imprese dovranno aumentare i prezzi dei prodotti, e quindi far aumentare ulteriormente i prezzi, che faranno aumentare i salari e così via.
Insomma, rischiamo di impiccarci da soli. Cosa che, tra l’altro, stiamo già facendo.
Dunque la contraddizione è spiegata: l’aumento dei salari fa aumentare i costi per le imprese (il lavoro costa troppo), ma tale aumento si limita a compensare l’inflazione (gli stipendi sono realmente bassi).
Gli stipendi bassi comportano meno consumi, quindi meno profitti per le imprese, le quali dunque spingono per far scendere i costi, e il costo principale è il lavoro. In Italia le imprese per sopravvivere (o per aumentare il margine) cercano principalmente di fermare gli aumenti degli stipendi e una battaglia vinta dalle imprese è quella sul precariato (la famosa legge Maroni, già legge Biagi): aumentare la flessibilità del mercato del lavoro comporta una diminuzione del salario reale (non nominale, quello che viene aumentato con la contrattazione) per una semplice legge macroeconomica.
Ma agire semplicemente sul costo del lavoro non serve assolutamente a nulla, e questo lo aveva capito già Henry Ford: se io do uno stipendio sufficiente ai miei dipendenti, loro potranno comprarsi la macchina che essi stessi producono, e ci guadagnamo entrambi. Per questo Ford ebbe il colpo di genio: invece di abbassare i salari, faccio in modo che i miei dipendenti producano di più. In questo modo posso aumentare gli stipendi, produrre di più e vendere di più. E così ristrutturò i processi per l’assemblaggio e il 5 gennaio del 1914 portò a 5 dollari al giorno il salario dei dipendenti (aumentandolo di poco più del doppio, prima era a 2,34 dollari). Sapete che fecero i suoi colleghi industriali? Si incazzarono, perché significava doversi fare concorrenza, ovvero puntare a migliorare per sopravvivere (comodo sfruttare il lavoratore sottopagato). Ma Ford, alla fine, ebbe ragione, e il suo modello T fu un successo.
Senza ritornare alla (sic) catena di montaggio e agli altri eccessi di Ford, oggi le imprese sono in grado di aumentare la produttività: all’estero si fa da anni, ma non in Italia, dove, puntando sempre e solo sulla favoletta del made in Italy, si vogliono produrre le stesse cose con gli stessi mezzi di cinquanta o duecento anni fa. Non c’è innovazione, non c’è ricerca, e l’unico modo che hanno le imprese per continuare a competere è frenare i salari e/o aumentare i prezzi: ma il risultato non è flessibilità, bensì schiavismo. Ed è una scelta miope, e che, come si vede, ha fatto malissimo al Paese.
Cosa si può fare: come ha detto Almunia, bisogna puntare sulla produttività e sull’efficienza. Lo Stato non deve rompere i maroni con la burocrazia (Brunetta pensaci tu). Lo Stato deve abolire la legge Maroni: va bene la flessibilità, ma non può essere una scelta di vita. Il dipendente non deve sentirsi un emarginato nell’azienda, perché in quanto tale lavorerà appena quanto basta per non essere licenziato anzitempo (“Perché dovrei impegnarmi al massimo se già so che fra un anno sarò licenziato? Meglio impegnarsi al minimo ed essere comunque mandato a casa fra un anno”). Una volta acquisita la sicurezza del posto di lavoro (almeno per un tempo non breve), il dipendente sarà incentivato a lavorare per quella che è la “sua” azienda, diventerà più efficiente e produttivo, e questo contribuirà a far calare il costo del suo lavoro, frenando la deriva inflazionistica (i prezzi cresceranno meno perché i costi sono cresciuti meno) e quindi facendo ripartire i consumi.
Sembra facile risolvere questa situazione, ed in effetti lo è. I problemi, però, sono sempre gli stessi: la politica italiana, sia a sinistra che (soprattutto) a destra, è strettamente legata al mondo dell’imprenditoria, che quindi può fare pressione sui politici perché non prendano decisioni scomode (per gli industriali). La cosa buffa è che non prendendo quelle decisioni scomode (per loro) gli industriali non hanno problemi nel breve periodo, ma ce l’avranno nel medio (dove, tra l’altro, agisce quella legge macroeconomica di cui parlavo prima) e se non innovano (puntando semplicemente a ridurre i salari) l’avranno anche nel lungo (per il modello di Solow). Il Paese intero, invece, avrà (e ha) problemi nel breve, nel medio e nel lungo. Non state a sentire i politici che parlano di “congiuntura economica sfavorevole”: le cose vanno male da decenni, non da qualche anno. La crisi economica in atto non fa altro che aggravare una crisi che è nella struttura, non nella congiuntura (pensateci: com’è che noi cresceremo solo dello 0,1%, mentre Francia e Germania – che pure subiscono la stessa congiuntura economica sfavorevole – cresceranno del 1% e 1,5% rispettivamente, e con una media europea del 1,3%? Mi pare che il problema è nostro, non “della congiuntura” come dice un qualunque Tremonti della domenica… – vi prego di notare che il Corriere dice che le cose vanno in Italia vanno come in Francia e Germania, ma si tratta solo dell’ennesima copertura mediatica per nascondere l’incapacità dei nostri politici: Francia e Germania vanno 10 e 15 volte più veloci di noi, i numeri non scherzano.)
E siccome le cose che si possono fare per migliorare questo stato ci sono, la questione non è “cosa fare”, ma, ancora una volta, solo una questione di “voler fare”.
Purtroppo negli ultimi quindici anni abbiamo avuto solo governi che non volevano fare (a destra, soprattutto grazie a mr. conflitto-di-interessi, l’imprenditore Silvio Berlusconi) e governi che, anche se avessero voluto, non avrebbero potuto fare (a sinistra, poiché al suo interno dovevano convivere liberali, comunisti, industriali alla Matteo Colaninno e imbecilli comuni, col risultato che non riuscivano a mettersi d’accordo).
Poi qualcuno (ovviamente, un qualcuno politico) si lamenta se Beppe Grillo chiede un ricambio generazionale (e penale) in Parlamento. Se, qualunque sia il colore del governo, in Parlamento siedono sempre gli stessi e le cose vanno sempre male, forse una soluzione non potrebbe essere cambiare i politici?
La risposta è sì: peccato che questa via ci sia preclusa grazie al Porcellum (si scelgono fra di loro, quindi non contiamo nulla). Di conseguenza non possiamo fare nulla neppure come elettori. Siamo inutili, buoni solo a lavorare come schiavi. Purtroppo, quando si accorgeranno di tutto questo, sarà troppo tardi (e loro, che già sono vecchi e stravecchi, saranno probabilmente morti di vecchiaia). Noi, giovani, saremo fottuti.
(No, non sono pessimista, magari lo fossi! Sono semplicemente realista, purtroppo… Voi pensate che le cose non sono così tragiche? Discutiamone nei commenti! 🙂 )