Ad Annozero, fra gli altri, c’era un esponente del Partito Democratico, tal Giorgio Tonini, che parlando di democrazia interna ai partiti, sbandierava il fatto che il PD faceva primarie ovunque per decidere le cariche monocratiche (sindaci, governatori e similari) e diceva, parafrasando, che non c’è partito più democratico del Partito Democratico.
Io sono stato di quelli che ha votato alle primarie del 2006, galvanizzato da quella che doveva essere una meravigliosa svolta democratica. Da allora non ho più partecipato ad altre primarie perché mi sono accorto che non sono primarie, almeno come le dovrebbe intendere un democratico: sono incoronazioni pubbliche, manifestazioni di forza che non hanno un bel niente di democratico. Quando nel 2007 bisognava scegliere il segretario, ho notato che c’era un segretario designato (Veltroni) e sette, chi più, chi meno, fantocci. Una semplicissima operazione di incoronazione di un segretario già scelto dalla nomenklatura. E ho detto “no, grazie”.
Non c’era una sfida fra un Barack Obama e una Hillary Clinton, un astro emergente e un colosso della politica americana, con altri candidati meno forti ma tutto sommato validi. Delle vere elezioni primarie sarebbero state se ci fosse stata una sfida fra Veltroni, Bersani, D’Alema, Rutelli, Fassino. Ma così non è stato: questi altri nomi, sostanzialmente, si sono fatti da parte per non rendere meno forte la vittoria di Veltroni (che vinse con tre quarti dei voti, altro che sul filo del rasoio come Obama).
Il colmo, come racconta Sandro Brusco su NoiseFromAmerika, riguarda le ultime primarie, dove hanno vinto candidati “a sorpresa”: il giornale del PD, l’Unità, dice che la vittoria di questi sconosciuti non è incoraggiante, sposando la teoria per la quale più persone partecipano alle primarie e peggio è, perché non vincono i prescelti del partito. Ma allora che razza di primarie sono? Uno dovrebbe scegliere il migliore, o almeno quello che riesce a conquistare maggior consenso, non il candidato scelto dai dirigenti. E quando questo non succede, ci tocca sentire boiate del genere.
Un candidato, a qualunque carica, non deve piacere prima al dirigente e poi agli elettori, perché così le elezioni si perdono. Deve piacere agli elettori, perché, se eletto, dovrà lavorare per gli elettori, tutti, non per i dirigenti del partito. Poi qualcuno si stupisce se esce gente come Lusetti, che nelle intercettazioni si vantava di, sostanzialmente, farsi i cavoli suoi.
Adesso ci si stupisce che la leadership di Veltroni traballi: è ovvio! Non ha vinto contro D’Alema o altri, che, se sconfitti, non avrebbero potuto far altro che starsene zitti, perché Veltroni aveva battuto loro. Invece no, rimangono queste forze centrifughe in cerca di potere, e il PD, inevitabilmente, perde la sua forza e presta il fianco ad ogni possibile attacco, a cominciare dalla questione morale.
Questa, credo, è la prima cosa che il Partito Democratico deve capire: che non può esistere una leadership (locale o nazionale) scelta dai cittadini solo grazie ad altri che si fanno da parte per non far perdere il candidato della dirigenza, perché è una presa in giro per i cittadini e una bomba a orologeria per il partito, che non ha quindi una guida forte di una vera investitura popolare contro tutte le altre “stelle” del partito. Le primarie sono un grande strumento che certamente distingue il PD da altri partiti simil-fascisti che in quindici anni hanno tenuto due congressi (un Forza Italia a caso): ma devono essere primarie vere, con candidati veri e reali vincitori scelti dai cittadini, altrimenti sono strumenti democratici quanto un plebiscito durante il periodo fascista. Ai quali non posso, per questioni di coscienza, partecipare.