Ieri si sono conclusi i ballottaggi. Alla fine, delle 50 province in mano al centrosinistra, 32 sono passate di mano. Sinceramente, pensavo peggio. Un commento scritto piuttosto di getto.
Mi spiace per Dario Franceschini, ma questa non si può considerare una vittoria, perché le province che hanno resistito, lo hanno fatto per meriti propri e non per il Partito Democratico. A Milano Filippo Penati è stato protagonista di una grande rimonta, persa dopo un appassionante testa a testa e per soli quattromila voti, praticamente un nulla sul milione e oltre di votanti, ma si è presentato con il suo proprio simbolo e non con quello del PD, è andato a cercarsi i voti per strada spendendo sé stesso e non il partito, e questo dovrebbe dirla lunga.
Non si può parlare di vittoria se si guarda alle roccaforti rosse che sono cadute, come Cremona e soprattutto Prato, dove l’incapacità dell’amministrazione locale di mettere mano alla questione cinese è stata fatale (e come ho già detto un libro aveva profetizzato tutto già quattro anni fa). Perdere milioni di voti non può far dire che “abbiamo vinto”. Altro discorso è il declino di Berlusconi, ma questo è veramente una questione diversa, che non c’azzecca (o c’azzecca poco) con le amministrative.
Il centrodestra avanza (ed è più che fisiologico, si chiama alternanza), ma non sfonda: i colpacci a Torino e Firenze, giusto per dirne due, non ci sono stati. Caso a parte quello di Bologna: il candidato locale, Cazzola, è stato lasciato praticamente solo, e è stato pertanto travolto da Delbono. La Lega Nord ha parlato di vittoria grazie al referendum, ma a livello complessivo l’invito all’astensione gli si è ritorto contro (come a Milano, di nuovo, dove c’è stata quasi la sconfitta).
Nella mia città si votava anche per il sindaco, e credo che questo giro elettorale sia la prova di quanto sostengo: il sindaco uscente del PD ha perso (pur avendo dimezzato il distacco dal primo turno), e a mio avviso il problema è stato aggrapparsi alla politica nazionale, più che ai successi conseguiti direttamente in città (che pure non sono pochi). Il sindaco aveva infatti invitato Minimo D’Alema qualche giorno fa, e Minimo non ha convinto nemmeno l’asfalto (e infatti i comunisti, i socialisti e i verdi, che facevano lista a parte al primo turno, si sono guardati bene dall’andare a votare). Tutto il contrario di Umberto Bossi, che è venuto qui il giorno prima di D’Alema, e ha fatto tremare pure gli alberi con le sue cazzate populiste
Le amministrazioni locali hanno subìto (ingiustamente, a mio avviso) i contraccolpi della politica nazionale. Farò riferimento al PD: le vittorie sono indubbiamente da attribuirsi alla bontà dei candidati locali e al loro lavoro che non a quello del partito nazionale. Avanti di questa strada non si può continuare: il PD ha perso milioni di voti, resiste solo perché è una bella idea che viene trattata male da chi la tira per la giacchetta verso l’inciucio (Minimo D’Alema) o verso il centro cattolico (Paola Binetti). Il PD non può permettersi di essere qualcosa di vecchio: l’inciucio non ha mai portato a nulla di buono al centrosinistra (anzi, ha sempre favorito e talvolta resuscitato Silvio Berlusconi), mentre lo spostamento verso il centro gli farà perdere voti, come ha dimostrato Termometro Politico, registrando il crollo presso gli elettori laici senza guadagnarne (anzi perdendone) presso quelli cattolici. Il motivo è semplice: il centro è già occupato da altre forze, a cominciare dall’UdC, visto che anche dal PdL sono fuoriusciti molti centristi a causa degli scandali di corte, e questo non ha favorito i democratici. Il PD deve uscire fuori da queste logiche, altrimenti non vincerà mai. Non è la scelta fra essere socialisti o essere cattolici: la scelta è essere democratici.
Una breve nota sul referendum: come da pronostici, purtroppo, sono falliti tutti e tre per il mancato raggiungimento del quorum. Le ragioni le avrete sentite ovunque, quindi mi limito ad un’analisi dello strumento. Si tratta, è vero, del peggior risultato referendario della storia, ma è anche vero che per la prima volta si è votato in estate (con una legge “ad referendum”, apposita).
Una riforma dello strumento appare d’obbligo: bisogna alzare il numero delle firme necessarie per poterlo richiedere e abolire o almeno ridurre il quorum. Non è possibile che una parte (il NO) parta avvantaggiato: alle elezioni c’è sempre fra il 40 e il 20% degli elettori che non va a votare in modo regolare, e questa quota è un vantaggio per il NO. Il quorum è come un arbitro, ma quest’arbitro viene trattato come se fosse un giocatore: è un arbitro corrotto. Le scienze politiche ci insegnano che questo non è democratico, perché alle elezioni le parti devono arrivare nelle medesime condizioni e possibilità.
Questo discorso prescinde dai referendum che si sono appena svolti: oggi chi fa parte del fronte del NO potrebbe favorire il SÌ al referendum di domani, qualunque esso sia. E credo non vi piacerà perdere per colpa di un arbitro corrotto. Pensateci.
Ultima riforma che pare d’obbligo, se non altro per risparmiare una barca di quattrini: stabilire per legge che una volta l’anno si voti per tutto quello che si deve votare in quell’anno, referendum, politiche, europee, regionali e altre amministrative (fatti salvi, ovviamente, ballottaggi ed elezioni suppletive), senza fare ogni anno tre o quattro chiamate al voto in due mesi (che uno si rompe anche un po’ le scatole, oltre a spendere denari che potrebbero essere facilmente risparmiati). Si fa in tanti Paesi del mondo, perché non possiamo essere così furbi anche noi?
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