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A giudicare dalla prime battute di questa campagna elettorale, sembra proprio che abbiamo davanti la sagra delle promesse elettorali esagerate anche per delle promesse elettorali. Di conseguenza o i candidati sono dei cretini oppure pensano che siamo cretini noi. Oggi tocca a Matteo Renzi e al suo salario minimo.
Come nel caso dell’abolizione della legge Fornero nel programma del centrodestra siamo davanti a una proposta che, una volta scrostata dallo slogan, presenta già diversi caveat che lasciano intendere che, in caso di vittoria elettorale, il PD proporrà alle Camere un salario minimo di molto inferiore.
La proposta è come al solito parca di dettagli, ma a naso non tocca una delle radici del problema del lavoro, e cioè che in Italia i salari sono già troppo alti. Aspettate a linciarmi, mi spiego meglio.
Anche in questo caso si tratta di una questione che abbiamo già affrontato quasi dieci anni fa (( In maniera molto grezza, se mi rileggo adesso, ma parliamo comunque di… wow, sono vecchio! )).
Intanto ricapitoliamo le obiezioni che sono già state mosse altrove alla proposta di Renzi:
- Un salario minimo a 9-10 euro è oggettivamente troppo alto, un outsider statistico che non possiamo permetterci;
- Il salario minimo funziona meglio in contesti di contrattazione collettiva decentrata, a livello aziendale o territoriale.
Circa il primo punto, se verrà introdotto un salario minimo in Italia, sarà fra i 3 e i 5 euro, in linea con i nostri partner europei. Io sono sicuro che Renzi voleva proporre un salario minimo da “80 euro al giorno”, ma sarebbe stata una proposta così scema che pure sua nonna avrebbe votato Peppe o Berlusconi. Quindi Renzi è andato di 9-10 euro, numeri comunque esagerati che però gli hanno consentito di fare il botto quanto a spin mediatico: infatti, la questione del salario minimo, almeno in linea teorica, non dovrebbe interessare nessuno, non i lavoratori autonomi, non i disoccupati, e neppure la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti.
Perché? Perché in Italia quasi tutti i lavoratori dipendenti hanno già una forma di salario minimo a tutelarli, grazie ai contratti collettivi nazionali di lavoro (ed è una delle tante forme di tutela che rendono i lavoratori dipendenti di vecchio conio iperprotetti, rispetto ad altre categorie di lavoratori o aspiranti tali, specie fra i giovani).
Il salario minimo serve invece in contesti di contrattazione decentrata, per evitare che la flessibilità che fornisce questo tipo di contrattazione sfoci nello schiavismo, perché i lavoratori possono avere minore forza contrattuale in aziende più piccole, dove l’organizzazione sindacale è scarsa, se non nulla. Ma se la contrattazione è nazionale questo pericolo non esiste (per i lavoratori dipendenti regolari, nell’Italia dei giorni nostri).
E veniamo alla radice del problema, e cioè che i salari sono già così alti che un salario minimo così elevato sarebbe catastrofico. Il salario di cui parliamo è ovviamente quello lordo, comprensivo delle imposte. In Italia il lavoro costa troppo, ma solo una parte di quanto le aziende pagano finisce nelle tasche del lavoratore: il resto se lo pappa lo Stato. Per questa ragione (insieme ad altre) i salari sono troppo bassi e troppo alti allo stesso tempo.
Il salario minimo, nelle buone intenzioni dei proponenti, dovrebbe aumentare i soldi che il lavoratore può portarsi a casa, ma se allo stesso tempo non si riduce il costo del lavoro e/o non si aumenta la produttività l’azienda non ha che due strade: o portare la fabbrica in Polonia o pagare in nero. E tanti saluti alla contrattazione collettiva, già moribonda, per mancanza della materia prima, il lavoratore emerso.
Come per tante altre questioni importanti affrontate a colpi di slogan, anche il salario minimo (o meglio, la questione del lavoro) meriterebbe una maggiore serietà e una visione di sistema. Ma sappiamo bene che la serietà non è di casa per l’uomo che ha spacciato gli 80 euro per un taglio delle tasse, il Jobs Act per una rivoluzione e che ha bruciato miliardi in inutile decontribuzione (visto che ha incentivato la creazione di posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque).
Anche in questo caso sono cose che vado dicendo da dieci anni. Se si vuole migliorare le condizioni di chi lavora e dare un lavoro a chi lo vuole bisogna innanzitutto rendere meno oneroso lavorare (tagliando il cuneo fiscale) e progettare recuperi di produttività (allego diapositiva qui sotto, via Bruegel) perché la torta che ci dobbiamo spartire diventi più grande. Se Renzi vuole il mio voto (( Ma non lo vuole.)) deve spiegarmi in che modo vuole risolvere questi due problemi. E convincermi, anche.
Poi, se si vuole parlare di salario minimo, bisogna anche parlare di riforma della contrattazione collettiva, perché il modello attuale il salario minimo ce l’ha già. Tuttavia la contrattazione nazionale ignora il mondo reale, sta morendo male e sta trascinando il Paese con sé nella tomba: non c’è salario minimo o reddito di cittadinanza a qualsiasi livello che tenga. Ma in questo caso sono i sindacati a non volerci sentire da quell’orecchio, e sono abbastanza sicuro che una buon quota degli elettori di Renzi sia sordo per gli stessi motivi. Per questo motivo possono succedere due cose:
- Non verrà approvata nessuna legge sul salario minimo;
- Verrà approvata una legge sul salario minimo che lascerà le cose come stanno.
Tutto cambia perché nulla cambi, come al solito.
Rimando all’ottimo articolo di Bruegel per un approfondimento sulla questione della contrattazione collettiva: è in inglese, ma se qualcuno dei miei quattro lettori lo richiede posso provvedere ad una rielaborazione, come al solito, “for dummies”.
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