Negli ultimi mesi abbiamo avuto due manovre da un centinaio di miliardi, composte perlopiù (due terzi) di nuove tasse e di minori detrazioni fiscali (che, mi dispiace per Alfano, significa più tasse per tutti). Come ben sapete, più tasse significa sottrazione di risorse al risparmio privato, e questo crea problemi alle imprese, già in perenne deficit di capitali che ne blocca la crescita. L’aumento dell’IVA deprimerà i consumi, cosa che deprimerà ulteriormente la crescita. È dunque assai probabile che nei prossimi mesi assisteremo a una crescita ancora peggiore di quella che già stiamo subendo, e quindi rischiamo di finire in recessione.
Finire in recessione, dato che le manovre ritengono che l’Italia crescerà un pochino nei prossimi anni, implicherà che le manovre già varate non porteranno al conseguimento degli obiettivi (pareggio di bilancio, abbattimento del debito pubblico, eccetera). Sicché, con buona probabilità, i mercati torneranno a spingere verso l’alto i rendimenti dei nostri titoli di Stato e sentiremo parlare di Manovra atto terzo questo inverno, e quindi di una patrimoniale più grossa di quella già varata. La soglia del 6% di rendimento oltre la quale il debito non si può ripagare è vicina.
Oggi diciamo che l’Italia non può fallire perché ha un risparmio privato enormemente superiore (otto volte) il debito pubblico, per cui basta prelevare e i conti quadrano. Però se di manovra in manovra si comincia a rosicchiare questo risparmio privato (sia direttamente, cioè con l’imposizione fiscale, sia indirettamente, cioè le persone risparmiano meno per far fronte alle necessità quotidiane), alla fine questo risparmio rischia di sparire. Prima tassiamo le rendite finanziarie (senza riconoscere crediti per le perdite, beninteso), poi passiamo a chiedere tot euro al metro quadro per ogni casa ulteriore alla prima, poi per ogni casa e basta. Intanto facciamo condoni, mentre i capitali che possono, ovviamente, prendono la via estera (compresa la via estera legale – specie se i soliti irresponsabili continuano a battere sul treno “usciamo dall’euro”), deprimendo ancora la crescita. Se avete letto questo articolo, sapete che questa è la via greca al default.
Nel frattempo, magari, si tratta la vendita dei campioni nazionali (ENI, ENEL, Finmeccanica, eccetera) ai cinesi, ovviamente a prezzi di saldo, visto che le loro azioni saranno maledettamente depresse dall’andamento complessivo del Paese. Già adesso si parla della vendita di Ansaldo da parte di Finmeccanica, il che mi sa di necessità di fare cassa a ogni costo, anche quello dell’azienda.
Altro problema che al momento ci “salva” dal fallimento è il fatto che il debito italiano è per circa metà in mani straniere. Se un default greco sarebbe un colpo grave, ma tutto sommato assorbibile, quello dell’Italia non lo è: sarebbe una botta che riecheggerebbe nei secoli in tutta Europa. Allora che si fa? Intanto si aiuta l’Italia come si può, come fa la BCE con gli acquisti di titoli di Stato (il QE3 sostanzialmente varato ieri serve ad altri scopi). Poi si lascia pian piano scadere il debito, si lascia che il peso nel portafogli diventi via via più leggero un po’ vendendo un po’ non rinnovando, e intanto ci si copre acquistando SCDS e se ne compra sempre meno a tassi più alti (perché, ve lo dico sinceramente, a questi prezzi un piccolo azzardo lo farei pure io, certo senza andare in all-in). A riprova di ciò, il bid-to-cover, cioè la copertura della domanda sull’offerta alle ultime aste di titoli di Stato si è quasi dimezzata rispetto alle precedenti. Tanto se le cose vanno bene all’Italia, pazienza per gli alti tassi perduti, ma c’è sempre tempo per comprare BTP in futuro. Ma se le cose continuano ad andare male?
Piano pianino si rende l’Italia sempre meno sistemica, almeno come la Grecia, dopodiché la si lascia al suo destino (come si farà con la Grecia). Ora, l’Italia potrebbe fallire entro il 2016, ma non siamo ancora al punto di non ritorno: questo è il punto chiave dell’analisi che ho appena fatto. Se proseguiamo su questo sentiero, è alta la probabilità di fallire. Se ne scegliamo un altro, avremo un altro esito (che può essere salvezza o fallimento in tempi più brevi, per esempio nel caso in cui si scopra che Tremonti ha fatto come la Grecia, ovvero ha truccato i conti).
Il sentiero della salvezza passa da due problemi che si intrecciano. Uno è la leadership nazionale: al governo da dieci anni non ha fatto nulla per la crescita del Paese (e anzi, specie sui tagli a istruzione e cultura, di cui Tremonti non è mai stato parco, ci ha azzoppato la crescita nel lungo periodo). Le priorità dei governi Berlusconi sono state:
- salvare il premier dalla galera;
- favorire le sue imprese (ultimo esempio recente, il fatto che invece di vendere delle frequenze televisive a suon di miliardi, verranno regalate a Mediaset – tra gli altri);
- favorire e salvare gli amici.
La persistente, arrogante forza con la quale Berlusconi resta incollato alla sua poltrona è di per sé portatrice di aumento di spread e di tassi di interesse pagati dall’Italia. Le sue dimissioni lo farebbero calare, com’è successo con le dimissioni di Zapatero. L’altro fattore è la scarsa crescita, che può essere favorita da varie altre misure a costo zero, delle quali alcune sono qui esposte. La linea d’azione del governo è questa: non fare niente e aspettare che la ripresa globale ci tiri fuori dai casini. Niente di più cretino: il mercato non ci sta facendo pagare il fatto di avere un debito pubblico del 120% del PIL, per cui non serve a niente promettere misure storiche come il pareggio di bilancio a costo di afferrare ogni cittadino italiano per i piedi, scuoterlo e raccogliere gli spiccioli che cadono. Al mercato non fregherebbe niente neppure se fosse al 300%: al mercato interessa che noi cresciamo abbastanza per potere pagare gli interessi. E noi non lo siamo, e da decenni, visto che dai tempi di Bottino Craxi il debito pubblico è esploso perché, oltre a sprecare, ripagavamo gli interessi sul debito emettendo altro debito. Per questo una maxipatrimoniale da 400 miliardi per abbattere il debito in un battito di ciglia, di cui si vocifera in questi giorni, non servirebbe assolutamente a nulla senza il ritorno ad una crescita sostenuta e a un cambiamento della classe politica. Lo ripeto da tempo: una patrimoniale che tappi i buchi di una classe politica presente da 30 anni e fallimentare da altrettanti che riaffidi il Paese alla medesima classe di inetti ci riporterebbe di nuovo sull’orlo del baratro.
Per evitare il peggio è necessaria un nuovo governo che segni una forte discontinuità con quello berlusconiano che ribalti l’ordine delle priorità e abbia come primo punto in agenda il ritorno alla crescita. L’alternativa è continuare su un sentiero che porta nell’abisso: più tempo passa e più il punto di non ritorno si avvicina.