Per Diritto di Critica.
Il No del Presidente Napolitano sul decreto relativo al federalismo fiscale municipale è stato un mero stop tecnico, visto che l’emanazione del decreto legislativo non ha rispettato le procedure previste dalla stessa maggioranza di governo nella legge delega 42/2009. Il testo del decreto, dopo il passaggio alle Camere e salvo la fine della legislatura, tornerà al Consiglio dei Ministri nel giro di circa un mese.
Il timore è che, trascorso un altro mese, il testo del decreto sarà colpito da ulteriori compromessi al ribasso, come quelli che hanno già segnato il testo respinto dal Presidente della Repubblica, rendendo sempre più evidente l’assenza di un federalismo con una chiara visione d’insieme e lontano, oltretutto, dai proclami del centrodestra sul fatto che dovrebbe portare meno tasse e che dovrebbe responsabilizzare gli amministratori locali.
Il federalismo fiscale, nella bozza attuale, prevede infatti una maggiore tassazione per molti, a cominciare da dipendenti e pensionati che pagano l’Irpef: nel corso dei negoziati con l’associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) il governo ha deciso il ritorno degli aumenti all’addizionale dello 0,4% già dal 2010, che Tremonti aveva bloccato due anni fa, senza però alcuno sgravio per l’imposizione nazionale. Ciò significa che lavoratori dipendenti e pensionati, se dovesse passare il federalismo, si ritroveranno a pagare più tasse, poiché, oltre a pagare l’Irpef statale (che al momento resterà fissa), dovranno pagare anche gli aumenti di quella comunale.
Arriveranno più tasse anche grazie all’introduzione dell’imposta municipale propria, dovuta sugli immobili, eccezion fatta per quelli adibiti ad abitazione principale, la cosiddetta prima casa. L’aumento si nota dall’aliquota imposta dallo Stato (non dai comuni, dunque dove sarebbe il federalismo?), pari allo 0,76% contro l’aliquota (massima) dello 0,7% della vecchia Ici: questo aumento è parzialmente attenuato dall’eliminazione dei renditi fondiari dalla base imponibile Irpef, ma poiché i conti non quadravano ancora sono state eliminate le agevolazioni per gli immobili commerciali. Il piccolo risparmio delle persone fisiche, insomma, verrà pagato dalle imprese.
Va inoltre ricordato che, oltre all’imposta municipale propria, verrà introdotta anche un’imposta municipale secondaria, che sostituirà altre imposte oggi facoltative per i comuni ma che, nel disegno del governo, dovranno diventare obbligatorie.
Altra novità è la tassa di soggiorno, ovvero una tassa che alcuni comuni a vocazione turistica potranno imporre sulle notti trascorse dai turisti in albergo, per finanziare la manutenzione del bene di cui usufruiscono i visitatori, ovvero le bellezze naturali e umane di cui è ricco il territorio italiano. Ma, per quanto con un nobile scopo (quali tasse, in fondo, non ce l’hanno?, come soleva dire Tommaso Padoa-Schioppa), sempre di una nuova tassa si tratta.
Dopo questa veloce analisi del federalismo in salsa leghista, si giunge alle due conclusioni anticipate sopra: la prima è che questo federalismo è ben lontano dall’abbassare la pressione fiscale, soprattutto per chi non nuota nell’oro, ovvero dipendenti, pensionati e piccole imprese, considerando anche che l’IRPEF colpisce chi le tasse è costretto a pagarle e non gli evasori, che non vengono granché toccati da questa riforma tributaria.
La seconda è ancora più disarmante: l’imposta municipale, tolte le imprese, sarà dovuta in maggioranza da chi non è residente nel comune dove tale tassa viene versata; e se uno non è residente in tale comune non può votare e dunque non potrà in alcun modo giudicare se il rapporto fra pressione fiscale e servizi erogati sia giusto. Stesso discorso per la tassa di soggiorno, dovuta dai turisti, i non residenti per eccezione.
Dov’è dunque la responsabilizzazione che il federalismo fiscale, almeno nei sogni di Umberto Bossi, dovrebbe garantire? Sembra, invece, che pur di portare a casa uno straccio di federalismo da potere utilizzare sui manifesti alle prossime elezioni, la Lega voglia negare il principio che ha fatto nascere il Paese federalista per eccellenza, gli Stati Uniti d’America, nati gridando “No taxation without representation”.
Tutt’altro lo slogan del federalismo padano: “more taxation without representation“, il tutto in un Paese con una pressione fiscale già scandinava e con evidenti vulnus nel suo sistema di pesi e contrappesi.
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