Il 5 dicembre il presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker e il ministro dell’Economia italiano Giulio Tremonti hanno inviato al Financial Times un Op-Ed, nel quale hanno proposto l’introduzione in Europa di E-Bond (erroneamente citati dalla sintesi giornalistica come ‘Eurobond’). Si tratterebbe di titoli di debito (come BOT e BTP italiani) emessi però da una autorità sovranazionale, l’Unione Europea, per sostenere i Paesi che non riescono più ad accedere ai mercati finanziari, com’è accaduto di recente alla Grecia e all’Irlanda.
La proposta sfonda una porta aperta, una problematica che l’Unione Europea si trascina da sempre: la separazione fra politica monetaria e politica fiscale. I Paesi dell’Eurozona hanno infatti una sola moneta, ma ben diciassette (a gennaio) politiche fiscali differenti e ciò è una delle cause alla base delle tempeste che hanno coinvolto prima la Grecia e poi l’Irlanda (e chissà chi altro in futuro).
I titoli di debito sono strumenti di politica fiscale, perchè servono – almeno in linea teorica – a finanziare progetti i cui benefici ricadranno su più generazioni: appare quindi giusto che a pagarli non siano solo le attuali generazioni, ma anche quelle future che parimenti li utilizzeranno. Ciò significa che queste ultime dovranno pagare più tasse (a fronte, auspicabilmente, di un reddito maggiore reso possibile dalle infrastrutture), pertanto i titoli di debito sono una traslazione della politica fiscale di oggi verso quella futura.
Il primo problema degli E-Bond è però che non esiste una tassa europea che possa sostenere tali emissioni. A supportarle dovrebbero quindi essere i singoli Paesi, ma non è dato di sapere chi e in quale misura: tutto lascia pensare che a farsene carico saranno le economie più solide, Germania in primis, la quale però si è già ‘messa di traverso’. Cosa accadrebbe invece se un Paese non fosse in grado di farsi carico della sua quota di debito?
Uno degli aspetti che Juncker e Tremonti sembrano ignorare (a parte il fatto che per introdurre tali strumenti sono necessarie modifiche fondamentali ai Trattati) è che se alcuni Paesi non riescono a raggiungere i mercati finanziari, ciò non è dovuto alla scarsa liquidità di tali mercati, bensì al fatto che quei Paesi non vengono ritenuti particolarmente solvibili (cioè in grado di ripagare i propri debiti). Non solo: l’introduzione di E-Bond potrebbe rendere la vita ancora più dura ai titoli di debito nazionali, drenando liquidità e rendendo più difficile l’accesso ai mercati finanziari per i Paesi a rischio.
Se poi assumiamo che tale problema sia solo frutto di una visione pessimistica della realtà, dobbiamo considerare un altro aspetto della questione, quello del moral hazard: in presenza della rete di sicurezza formata dagli E-Bond, magari garantiti dalla Germania, chi è in grado di dire con certezza assoluta che i ‘PIIGS’ (come vengono definiti in modo dispregiativo i paesi europei la cui economia risulta particolarmente disastrata) eviteranno proseguire con le politiche disastrose che li stanno portando uno dopo l’altro sull’orlo del baratro? Appare fallace pensare che il futuro dell’Unione Europea possa avere come motto “meno male che la Germania c’è”.
La ragione, a breve termine, pare essere però dalla parte di Angela Merkel: gli E-Bond non risolveranno alcun problema, se gli Stati dell’Unione non faranno come la Germania, cioè se non prevederanno quei tagli alle spese inutili e quegli investimenti che hanno portato i tedeschi a vedere una crescita record nel bel mezzo della crisi più terribile dal 1929. Tuttavia a lungo termine (ma neanche troppo lungo) le cose sono ben diverse. Si dovrebbe puntare a risolvere la problematica ben riassunta da Guido Tabellini, rettore dell’Università Bocconi di Milano, in un articolo che ha preceduto di una settimana quello di Juncker e Tremonti: l’Unione Europea non può sostenersi sulla sola unione economico-monetaria. Occorre che si doti anche di una politica fiscale unitaria (che magari comprenda pure gli E-Bond), se non altro per sostenere la BCE, finora la più grande fornitrice di liquidità e che potrebbe all’occasione aiutare di nuovo, comportandosi come la Federal Reserve americana.
Senza una politica fiscale unitaria, l’Unione Europea rischia di rimanere zoppa, con conseguenze difficilmente immaginabili; al contrario, un accordo rigoroso sulla necessità di tali politiche non solo sarebbe un altro, decisivo passo verso l’unione politica dell’Europa, ma anche verso la soluzione alle crisi in stile greco e irlandese: l’integrazione fiscale, infatti, porrebbe la parola fine alla politica dalle tasche bucate e con i conti truccati tipica di vari Paesi europei.
E forse è per questo che è tanto difficile da realizzare.
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