Il Post ricostruisce il battibecco fra Corriere della Sera e Antonio Di Pietro sul passato di quest’ultimo. Mi soffermo solo sulla risposta del giornalista, che si può riassumere con la formula: «io non ho detto X, bensì “quasi-ma-non-X”». È interessante studiarla, poiché si tratta di uno dei più efficaci metodi per far passare un messaggio falso dicendo cose vere.
Si tratta di un giornalista molto bravo come retore (ha studiato retorica o ha un talento innato, non so), e l’articolo che ha scatenato tutta la vicenda è davvero un capolavoro, e infatti fin da subito dimostra di conoscere profondamente le più raffinate tecniche retoriche. Ad esempio, l’articolo originale inizia subito con parole dolci nei confronti di Di Pietro, per controbilanciare il titolo del pezzo e quindi darsi un’aura di imparzialità. Salvo poi affondare come un campione olimpico di scherma contro un disarmato Di Pietro (uno scontro corretto si sarebbe avuto se il giornalista fosse andato da Di Pietro stesso a porgli domande anche crudeli, è così che si fa giornalismo, non per sentito dire).
Le parole del giornalista sono tecnicamente ineccepibili. Io stesso non posso dubitare della sua buona fede, perché ciò che egli dice è corretto senza ombra di dubbio e se Di Pietro lo querelasse non solo perderebbe la causa, ma farebbe anche la figura di uno che vuole comprimere la libertà d’informazione. Infatti il messaggio che proposto al pubblico è “quasi-ma-non-X” (un’affermazione tecnicamente vera), ma il messaggio che viene veicolato (non so se intenzionalmente o meno) con questo artificio retorico è X (affermazione volta ad instillare un dubbio che in condizioni normali non ci sarebbe), ed è così perché Di Pietro è stato costretto a rispondere a tale articolo, per evitare che la gente pensi X o “quasi-ma-non-X” invece che la verità (soprattutto giudiziaria). E si tratta di un artificio difficilmente percepibile dall’uomo medio (che non ha mai studiato retorica: non l’insegnano più per ovvi motivi), ovvero la maggioranza dei lettori del Corriere e degli italiani in generale, ma nonostante ciò è molto noto e usato.
Ad esempio, i creatori di South Park lo hanno spiegato (e parodiato) nell’episodio Dances with Smurfs (Balla coi puffi), tredicesima stagione, che vi consiglio di vedere (perché sono molti gli artifici della comunicazione che vengono smascherati). In questo episodio Cartman, dopo essere diventato annunciatore della scuola, utilizza la sua nuova e visibile posizione per attaccare la rappresentante degli studenti Wendy con storie sempre più fantasiose quanto assurde, ignorando completamente gli sforzi che la ragazza sta facendo per migliorare la scuola. Ad esempio: «Wendy sta utilizzando i vostri soldi per comprarsi dell’eroina? Forse no. Ma come facciamo a saperlo?» Si nota subito lo schema: domanda retorica (la risposta è ovviamente no); risposta alla domanda retorica (risposta vera ma posta in forma dubitativa); nuova domanda che pone un dubbio (che rafforza il “forse” della risposta precedente e rovescia la risposta alla domanda retorica nella mente del pubblico medio).
Quando gli amici fanno notare a Cartman le sue idiozie, lui risponde: «Volete comprimere l’informazione? Volete impedire che la gente faccia domande?» e in un Paese libero tu non puoi impedirlo: è un’argomentazione schiacciante. Cartman si presenta sempre come«uno di voi, però io mi pongo delle domande»: in questo modo egli fa formalmente parte della massa, ma si erge, si differenzia dagli altri, i quali cominciano a vederlo come leader e ad avere fiducia irrazionale in lui. Finiscono, quindi, per scimmiottarlo, ripetendo le sue stesse parole senza riflettervi profondamente su. ((Mi ricorda qualcuno di mia conoscenza su Polisblog – no, non quello, quell’altro))
Lo scopo di Cartman, però, non è migliorare la scuola, bensì vendere i suoi libri e i diritti cinematografici ad essi collegati e fare un sacco di soldi. Nella vita reale lo scopo può essere questo o un altro (creare un movimento politico, ad esempio), ma la tecnica rimane la stessa. Ad esempio è utilizzata da Roberto Giacobbo a Voyager: nei servizi quasi mai si afferma e quasi sempre si fanno domande. Domande sciocche, che però instillano dubbi irrazionali nella gente, che quindi inizia a vedere misteri e complotti dove non ve ne sono. Intanto Giacobbo è diventato inspiegabilmente vicedirettore di Raidue. Provate a vedere una puntata di Voyager e una di Superquark e andate a vedere in quale delle due vengono poste più domande retoriche la cui risposta viene implicitamente negata.
La tecnica viene, ovviamente, perfezionata e mimetizzata per non essere subito riconoscibile. Il giornalista del Corriere, che come già detto dimostra di sapere il fatto suo, dice e non dice, alimentando dubbi inesistenti, ma credibili, senza però porre domande vere e proprie. E rispondendo alla puntuale risposta di di Pietro dimostra di volere evitare in tutti i modi le certezze: in un crescendo retorico, il nostro giornalista chiede certezze, ma allo stesso tempo le rifiuta. Come si possono rifiutare delle sentenze emesse da un giudice terzo (da molti giudici terzi) dopo accurate indagini? Il giornalista chiede a Di Pietro di dare una risposta chiara e definitiva, non stralci di sentenze. Ma cosa dovrebbe dire Di Pietro? Dovrebbe dare una versione diversa da quella giudiziaria? Una versione che poi sarebbe inevitabilmente di parte e che sarebbe facilmente attaccabile?
Da questo labirinto se ne esce in due modi, a mio avviso: uno è rispondere al massimo una o due volte e poi ignorare la questione sperando che il pubblico non la segua; il secondo è capovolgere la situazione e porsi sullo stesso piano dell’attaccante. Il secondo è più efficace, ma rischia di essere poco corretto. Di Pietro ha scelto la prima (e in South Park Wendy le utilizza entrambe).
Per quanto riguarda noi lettori, invece, la protezione da questo e molti altri artifici retorici è ricercare fonti diverse che raccontino la stessa storia in modo diverso, da diverse angolazioni. Io leggo molti giornali proprio per questo motivo, ma molti non lo fanno (ed è su questo che fanno leva i giornalacci, ed è per questo che in Italia non si esce dal monoduopolio televisivo: avere fonti diverse rischia di far venire fuori la verità). Ad esempio, leggete Marco Travaglio riguardo “le pulci di Di Pietro” e poi fatevi una vostra idea. Ma prima rimarrete sorpresi: anche Travaglio fa delle domande retoriche. Anche Travaglio usa la stessa tecnica (e anche Travaglio conosce la retorica): per difendere Di Pietro ha scelto il secondo modo per uscire dal labirinto. Lo scopo di Travaglio è sicuramente diverso da quello del giornalista del Corriere, e questo è un bene, perché ci aiuta a filtrare i fatti e quindi a capire chi ha torto e chi ha ragione.
In generale, tuttavia, dobbiamo imparare a diffidare degli articoli di giornale che pongono domande (esplicite o meno) spacciandole per fatti: vogliono sempre portarci da qualche parte, a prendere posizioni che conoscendo i fatti duri e puri non prenderemmo. Fanno leva sui dubbi per manipolare la nostra opinione, ed è una tecnica efficacissima, poiché i dubbi instillati sembrano provenire da dentro di noi, sembrano nostri pensieri, nostre convinzioni e noi siamo sicuramente la prima e forse l’unica persona di cui ci fidiamo ciecamente.
Questa tecnica, messa in mano ai bugiardi (che spesso sono quelli che la usano meglio), è un’arma di distrazione di massa con un potere tremendo. Non si può impedire ai bugiardi di utilizzarla, ma possiamo cercare di renderla inefficace.
Lo so, informarsi è faticoso, specialmente in questo Paese. Purtroppo è una conseguenza dello scarso pluralismo, della concentrazione dei mezzi d’informazione nelle mani di poche persone: in altri Paesi è molto più facile, perché i fatti sono chiaramente separati dalle opinioni e vi sono molte campane che raccontano le stesse cose da angolazioni diverse. Tutto il contrario dell’articolo del Corriere e di molti altri capolavori della stampa italiana.
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