I magistrati estromessi dal controllo dei conti mafiosi

Segnalo un mio articolo pubblicato su Diritto di Critica:

Chissà se è un caso che, proprio mentre l’Italia ricordava la strage di Capaci e dunque la morte di uno dei più grandi giudici antimafia, ovvero Giovanni Falcone, il ministero della Giustizia e quello dell’Economia decidevano di spuntare le armi della Procura di Palermo.

Dal 1991 i magistrati hanno la possibilità teorica di accedere a determinati conti corrente che si presume essere collegati alle mafie. Questa possibilità non è stata realtà fino a pochi mesi fa (gennaio 2009), quando il governo non aveva deciso di condividere tali password con i magistrati.

Se non ché, proprio durante le commemorazioni i ministeri di cui sopra hanno revocato le password, e dunque i magistrati non hanno più la possibilità di spiare i conti corrente sospetti. Il tutto, denuncia il magistrato Roberto Scarpinato, dalla sera alla mattina, senza preavviso, per fantomatici motivi burocratici.

La mafia di oggi non è più semplicemente quella delle stragi e della lupara bianca. Oggi la mafia è una vera e propria azienda, la più grande d’Italia con un fatturato che raggiunge i 130 miliardi di euro, secondo l’ultimo rapporto Sos Imprese (circa il 7% del PIL italiano), e come tale ha bisogno di conti corrente, solitamente intestati a prestanome, per spostare i soldi derivanti da traffici illeciti e ripulirli facendoli transitare in molti conti, anche all’estero, per farli arrivare lì dove la mafia ne ha bisogno, ripuliti e pronti per l’uso, per investirli in altre attività, più o meno lecite. Risorse che vengono quindi sottratte ad un uso pulito, alla ricchezza e alla crescita del Paese e anche allo Stato nello specifico, poiché non irragionevole ritenere che la mafia non paghi le tasse.

Il denaro e i beni che la mafia con esso sottrae al circuito economico legale possono e devono essere impiegati in un Paese dove da quindici anni si cresce a rilento e che ha perso venti punti di PIL rispetto agli altri Paesi occidentali. Occorrono leggi più aggressive per togliere alla mafia ciò che la foraggia e la sostiene, ovvero la ricchezza. La mafia è un tumore, poiché toglie il nutrimento alle cellule sane fino a distruggere l’organismo nel quale si trova. È difficile, se non impossibile, distruggere una ad una queste cellule cancerogene, ovvero procedere semplicemente all’arresto degli esponenti dei clan, poiché vi saranno altre persone pronte a prendere il posto di chi viene catturato: i soldi facili sono un buon movente per chiunque.

Le proposte, in tal senso, non mancano: il patrimonio sequestrato alla mafia deve essere indirizzato al più presto verso l’attività economica legale sotto la supervisione di un’agenzia ad hoc, che vigili che tali beni non rientrino nelle mani delle cosche, come è già accaduto spesso dopo che per anni queste ricchezze sono state lasciate in stato di abbandono e dimenticate.

Per tutti questi motivi appare contraddittorio, se non addirittura grottesco, impedire ai magistrati di procedere alla più immediata individuazione dei patrimoni mafiosi prima che raggiungano i paradisi fiscali (e quindi scomparire) e colpire la mafia lì dove fa più male: il portafoglio.

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