I precedenti appuntamenti sull’economia in parole semplici li trovate qui.
Durante il recente G20 (o G22) il presidente uscente George W. Bush ha difeso il meccanismo del libero mercato, ponendolo come base per la rinascita dell’economia a seguito della crisi economica. Qualcuno ha obiettato che è proprio il libero mercato la causa della crisi che stiamo vivendo e che quindi difenderlo è un controsenso.
La verità è che la causa della crisi non è il libero mercato, quanto un’eccessiva libertà. Per capirlo, vediamo insieme come funziona il libero mercato, perché è efficiente e perché talvolta fallisce, utilizzando come esempio i fallimenti ambientali, sempre più attuali.
Il libero mercato, secondo le teorie di Adam Smith, è regolato da forze che lo portano a raggiungere un equilibrio, un punto in cui le risorse vengono allocate in modo efficiente, ovvero senza che nessuno guadagni troppo a scapito di qualcun altro che invece perde ingiustamente, insomma tutto deve funzionare nella giusta misura. Sempre secondo Smith, non occorrono né regole né l’intervento dello Stato: il mercato farà tutto da sé, come guidato da una mano invisibile.
Il libero mercato ha come cardine le forze della domanda e dell’offerta, e si basa sul prezzo. La domanda rappresenta la richiesta di un bene, l’offerta, ovviamente, il contrario, ovvero la fornitura di un bene. Queste due componenti si comportano di solito in modo opposto prendendo due variabili, la quantità e il prezzo. Prendendo come esempio di bene le scatole di cartone ((un bene così insolito ci servirà tra poco)) accade, insomma, quanto segue:
- maggiore è la quantità di scatole di cartone richieste (la domanda), maggiore sarà il prezzo;
- maggiore è la quantità di scatole di cartone offerte (l’offerta), minore sarà il prezzo.
Queste due forze opposte (possiamo immaginarle come una X) si incontrano in un punto di equilibrio, in cui vengono prodotte e richieste una certa quantità di scatole per un certo prezzo. Il prezzo è la variabile fondamentale di questo sistema, quindi cerchiamo di capirlo un po’ meglio.
I metodi per stabilire il prezzo sono innumerevoli, quindi cercherò di ridurre il tutto all’osso. In regime di concorrenza, ovvero in un mercato libero da vincoli, innanzitutto, il prezzo non può essere troppo alto, perché altrimenti nessuno comprerebbe il prodotto e l’azienda andrebbe in perdita. D’altra parte il prezzo non può essere troppo basso, altrimenti l’azienda non guadagnerebbe abbastanza per coprire le spese e quindi andrebbe in perdita. Occorre, insomma, il prezzo giusto.
Siamo arrivati a un punto fondamentale: il prezzo deve coprire almeno i costi per produrre un bene. I costi sono innumerevoli, e di solito si distingue fra fissi e variabili. Non mi voglio dilungare ((se qualcuno volesse approfondire sono a disposizione)) per cui ridurrò la spiegazione all’osso. I costi ((bisognerebbe aggiungere qualche aggettivo, ma non voglio far pesare troppo la spiegazione)) diminuiscono all’aumentare della quantità prodotta, ma solo fino a un certo punto. Facciamo un esempio pratico.
La nostra impresa di scatole di cartone utilizza macchinari (costi fissi) e pasta di legno (costi variabili). Il costo dei macchinari, essendo fisso, non varia sia che produciamo una scatola, sia che ne produciamo 100 (il massimo possibile dato il macchinario). Il costo della pasta di legno, invece, aumenta con l’aumentare delle scatole prodotte. Ipotizziamo che il macchinario costi 100, che una unità di pasta di legno costi 1 e che produca una sola scatola di cartone. Qual è il costo totale di questa scatola? La risposta è 101 (100+1). Quindi il prezzo della scatola dovrà essere almeno di 101. Se ne produciamo un’altra? Utilizzeremo sempre il macchinario più due unità di pasta di legno. Il costo totale sarà 102 e il costo per scatola sarà 51. Il prezzo, quindi, dovrà essere di almeno 51. Se infine ne produciamo 100, il massimo, il costo totale sarà di 200 (100 per il macchinario e 100 per la pasta di legno), mentre il costo per scatola sarà di 2, così come pure il prezzo minimo. In concorrenza perfetta, infatti, il prezzo della scatola sarà di 2.
Se vogliamo produrre la 101sima scatola abbiamo un problema: dobbiamo comprare un nuovo macchinario dal costo di 100. Questo significa che il costo totale per produrre 101 scatole schizza a 301, e il costo per scatola finisce a poco meno di 3. Abbiamo quindi visto che il costo scende fino a un certo punto, per poi risalire ((La cosa non è così semplice, ma per i nostri scopi ci basta)).
Le aziende, quindi, finiscono per chiedersi: ci conviene comprare un altro macchinario? La gente comprerà tutte le nostre scatole al prezzo di 3? Se la risposta è sì, comprerà il macchinario, altrimenti la risposta sarà no. In ogni caso il mercato raggiungerà l’equilibrio e si produrranno tot scatole ad un tot prezzo, ad esempio con 100 scatole vendute al prezzo di 2 cadauna.
Il mercato, quindi, funziona, visto che le risorse sono allocate in modo efficiente: le aziende non compreranno più macchinari del necessario, non utilizzerano più energia elettrica del necessario, non abbatteranno più alberi del necessario, perché altrimenti finirebbero in perdita.
Tutto risolto? Il mercato è efficiente? Ma neanche per idea!
Tutti i costi che abbiamo considerato sono infatti interni all’azienda, ma l’azienda si trova immersa in un mondo esterno. cosa pensa il mondo esterno dell’azienda? Non ci dilunghiamo e facciamo direttamente un esempio pratico.
Per fabbricare la carta la nostra azienda utilizza, fra le altre cose, delle grandi vasche piene d’acqua ((chi volesse informarsi a riguardo può dare un’occhiata su Wikipedia)). Quando quest’acqua è stata utilizzata essa va buttata via, per esempio scaricandola nel fiume vicino. L’azienda non considera come costo l’inquinamento del fiume, anzi, buttare quell’acqua nel fiume, proprio perché non costa nulla, è la soluzione più economica. Ma per il mondo esterno vale la stessa cosa? Assolutamente no! L’acqua inquinata, per esempio, potrebbe far morire i pesci, e quindi far fallire il commendator Rio Mare che non potrebbe più pescare i pesci che si tagliano con un grissino ((sì, lo so che il tonno si pesca in mare aperto, è solo un esempio)), e quindi fallirebbe. Vi sembra efficiente un mercato del genere? Direi proprio di no!
Buttare quindi l’acqua nel fiume, se da un lato non genera nessun costo all’azienda delle scatole di cartone, genera problemi al commendatore o ad altri soggetti (per esempio, l’azienda che fornisce acqua potabile dovrà installare un nuovo depuratore, e scaricare il costo dello stesso sulla bolletta, ovvero sui cittadini). Scaricare l’acqua nel fiume, quindi, non genera costi interni per l’azienda, bensì costi esterni (o esternalità) a carico di molti altri soggetti esterni all’azienda. E questo è tutto fuorché efficiente.
È un problema del mercato? La risposta è no. Il problema è l’assenza di mercato: scaricare l’acqua nel fiume è gratuito, facile e comodo, visto che il fiume non appartiene a nessuno. Le soluzioni a questo e problemi simili sono tante, ma quella più efficiente potrebbe essere quella di creare un mercato, ovvero fissare prezzi e quantità per l’acqua di fiume. Vi sembra una scemenza? Potrà sembrare strano ma non lo è: lo Stato può imporre all’azienda delle condizioni, delle regole, per esempio un depuratore o una tassa («Vuoi sversare nel fiume? Allora dovrai pagare una tassa X su ogni litro d’acqua versata. In questo modo potrò aiutare il commendator Rio Mare a pescare altrove e costruire il nuovo depuratore per l’acqua potabile». Una tassa siffatta viene definita “Pigouviana“). In questo modo l’azienda ci penserà due volte prima di sversare i rifiuti nel fiume, e sarà indotta a trovare metodi più efficienti per smaltire i propri rifiuti. Probabilmente questo comporterà un aumento del prezzo delle scatole di cartone, ma pensiamoci bene: senza questo intervento statale, pagheremmo comunque di più per avere l’acqua potabile in casa, visto che il depuratore dovremmo pagarcelo noi, oppure saremo costretti a bere acqua inquinata, e tutto per cosa? Per pagare un po’ di meno le scatole di cartone? ((Nel caso del commendator Rio Mare, dopo il suo fallimento non avremmo più pesci da mangiare, non avremmo più le tasse che egli paga allo Stato, o dovremmo pagare i sussidi di disoccupazione per i suoi dipendenti!)) E sono solo degli esempi ((Un altro potrebbe essere l’elettricità: una centrale a combustibile fossile potrebbe costare meno di una centrale a energia solare, ma inquina certamente di più. La scelta quindi diventa, per chi vive ad esempio nei dintorni della centrale, fra pagare meno l’elettricità e respirare aria inquinata con annesse malattie, o pagarla un po’ di più ed evitare di vedere sé stessi o i propri figli in ospedale)).
Tiriamo quindi delle conclusioni: il libero mercato è efficiente (si taglieranno solo gli alberi necessari), ma non può essere lasciato a sé stesso. Occorrono delle regole chiare, rigide e soprattutto applicate, per evitare che il mercato inquini (non solo in senso ambientale) anche il mondo esterno. La crisi finanziaria, secondo molti, è stata generata proprio da una regolamentazione eccessivamente permissiva. Come ho già spiegato altrove (qui e qui, per esempio), fra le cause della crisi vi sono l’abolizione di una legge (il Glass Stegall Act del 1931, avvenuta nel 1999, alla vigilia – guarda un po’ il caso – della stagione speculativa) e dall’abuso di strumenti derivati, che hanno esasperato i normali movimenti del mercato. E la crisi finanziaria, inquinando l’economia reale, ha scatenato la crisi economica, la recessione.
Il libero mercato va quindi salvaguardato, ma i governi devono intervenire perché sia garantita l’efficienza globale e non solo quella del singolo mercato, che come abbiamo visto tende a fallire, ma senza tuttavia raggiungere vette di stupidità legislativa ((l’esempio più eclatante è la Politica Agricola Comune dell’Unione Europea)).