Lunedì notte il Giappone ha rilasciato una statistica sul Prodotto Interno Lordo che conferma gli affanni crescenti dell’economia locale. Il PIL è crollato dello 0,9% su base trimestrale e del 3,5% su base annuale, nonostante varie misure di stimolo siano state messe in atto: l’ultimo pacchetto governativo è stato dell’ordine di 4 miliardi di euro (e un altro arriverà a fine mese), mentre la Bank of Japan ha promosso un ulteriore alleggerimento quantitativoper quasi 100 miliardi, per un totale di quasi 800.
Nonostante ciò l’economia resta inchiodata: lo yen, il cui valore a seguito di queste manovre avrebbe dovuto svilirsi, resta decisamente forte, deprimendo le esportazioni, che negli ultimi decenni hanno dato almeno respiro al Paese; i tradizionali mercati di sbocco (USA ed Europa) sono in crisi, e la disputa territoriale con la Cina non aiuta le imprese giapponesi ad espandersi nel Paese di Mezzo; il Giappone, a seguito del terremoto e dello tsunami del marzo 2011, è diventato importatore netto di energia, e rischia di rimanerlo a lungo.
Intanto la politica è in una fase di crisi che dovrebbe sfociare presto in elezioni anticipate, mentre il bilancio statale si deteriora: il saldo primario (ovvero le entrate del Governo meno le uscite, al netto della spesa per interessi) è ormai a -8%, contribuendo a un debito pubblico già oltre il 230% (e che tuttavia rappresenta solo poco meno della metà del debito totale – cioè comprensivo di quello privato). Per avere un metro di paragone l’Italia ha un debito pubblico intorno al 120% e un debito totale superiore al 300% (il saldo primario, invece, prevede un avanzo intorno al 2%). La Grecia, prima dello scoppio della crisi, aveva un rapporto debito pubblico/PIL del 140% e un deficit paragonabile a quello giapponese.
Per fortuna del Giappone questa mole imponente di carta resta per la stragrande maggioranza in mani giapponesi, poiché i residenti sono storicamente delle formiche disposte a comprare debito pubblico anche se questo non rende quasi nulla: il 95% dei titoli di Stato dell’Impero, infatti, resta dentro i suoi confini.
Le cose rischiano però di cambiare molto presto: i giapponesi, ad oggi, possono (potevano) permettersi di risparmiare grazie alle esportazioni, e nonostante i bassi tassi di interesse, continuano a finanziare governo e banche poiché l’apprezzamento dello yen vanificava i premi di rendimento sugli attivi esteri: in altre parole, data la forza dello yen, ai giapponesi conviene acquistare acquistare attivo domestico anche se rende poco.
Purtroppo le esportazioni vengono depresse dal cambio forte (la bilancia commerciale è ormai decisamente negativa da diverso tempo), la domanda interna resta debole, mentre la popolazione diventa sempre più vecchia, indebolendo ulteriormente (in modo relativo) i consumi. Questi fattori potrebbero spingere i giapponesi a vendere i propri titoli di Stato: se c’è crisi è ovvio che si risparmi meno, ed è ancora più ovvio che chi entra nell’ultimo periodo della propria vita è meno propenso a mettere da parte il proprio denaro. Questo graverà sul bilancio del governo giapponese: ci sarà un aumento dei rendimenti su una massa di debito pubblico in un contesto di crescita economica debole. Una bomba a orologeria, tanto più che nei prossimi anni è prevista una graduale, ma inesorabile stretta fiscale.
Questa situazione ha spinto le speculazioni che la BoJ avrebbe cominciato a fare come la Banca Centrale Svizzera, ovvero acquistare titoli esteri al fine di deprimere il cambio più velocemente di quanto farebbe nel medio periodo, e rilanciare così le esportazioni. Il problema è che uno yen debole porterà i giapponesi a preferire attivo estero, aumentando dunque i rendimenti di quello domestico. La bomba sarebbe dunque tutt’altro che disinnescata, anzi, il timer potrebbe cominciare a scorrere più velocemente. Per questo, sempre lunedì notte, il governatore della BoJ Masaaki Shirakawa ha negato ogni programma di acquisto di titoli stranieri, sottolineando che ci sono ancora molti attivi domestici da acquistare (azioni?).
Il Giappone si trova dunque nell’area tranquilla dell’occhio del ciclone grazie all’azione anestetizzante della banca centrale, ma la resa dei conti è destinata ad arrivare. Il Giappone conserva molti dei suoi punti di forza storici, come il suo sistema industriale, ma gli effetti dell’evoluzione demografica e gli squilibri macroeconomici che diventano sempre più drammatici richiedono un drastico ripensamento del modello di sviluppo. Il Giappone rischia di trasformarsi in Grecia nel giro di pochi anni (qualcuno già ragiona in termini di trimestri): questa crisi finanziaria, però, non interesserebbe la quarantesima (nel 2011) economia del mondo, bensì la terza, e con un debito pubblico di dimensioni ben più impressionanti.
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