Ancora in altalena i mercati finanziari nel corso della scorsa settimana, spinti al ribasso dal probabile rallentamento della crescita economica nel corso dei prossimi mesi e dunque al rialzo sia per motivi tecnici che per motivi politici.
La cena informale fra i leader europei ha infatti confermato due tendenze di fondo della crisi europea. La prima riguarda l’assenza del governo europeo (e quindi di una politica fiscale comune) visto come unica soluzione alla crisi: le aree economiche del Vecchio Continente sono ormai troppo integrate perché possano essere gestite dai singoli governi nazionali che mirano a scadenze elettorali profondamente diverse che in ultima analisi rendono l’agenda europea per la ripresa una gara a chi è più schizofrenico. La seconda è invece il crescente isolamento della Germania: appare sempre più evidente che anche Berlino rischia di perdere molto se la crisi non verrà risolta, a cominciare dagli straordinari obiettivi macroeconomici (crescita, piena occupazione e inflazione stabile) sinora raggiunti. Questi tre obiettivi, infatti, sono stati conseguiti grazie alla debolezza dell’euro rispetto a un ipotetico marco tedesco quale si avrebbe in un contesto economico come quello tedesco: detto in altre parole, la forza della Germania si tradurrebbe in una forza della sua moneta, che a sua volta porterebbe l’economia a raffreddarsi naturalmente. L’euro, però, non è la moneta della Germania, ma di un’Unione molto più debole, e di questo si è avvantaggiata Berlino, cannibalizzando la crescita economica degli altri Paesi UE.
Si assiste quindi a una presa di coscienza che il problema della crisi non è l’euro, né la politica monetaria, ma anni e anni di politiche fiscali sballate, e che per risolverlo tutti i Paesi dovranno sacrificare qualcosa a favore dell’Europa: i PIIGS al bengodi, la Germania (e gli altri Paesi ad essa agganciati) a una crescita a danno degli altri. Il problema è che questa presa di coscienza si sta attuando lentamente, attraverso elezioni che si tengono scaglionatissime, e la Merkel, principale fautrice dell’eurofarsa, sarà scollata dalla poltrona non prima del 2013. Riuscirà l’Europa a sopravvivere tutto questo tempo? Arriverà prima l’implosione e la depressione o la presa di coscienza di ciò che ormai è ovvio per tutti?
Intanto la crescita economica rallenta vistosamente, anche in Germania, come preannunciano i sondaggi presso i direttori degli acquisti. A preoccupare è però la Cina, il cui rallentamento farebbe venire meno la sua funzione “antishock” che ha fatto rimanere a galla USA ed Europa nel corso dell’ultima crisi: il dragone, secondo S&P’s e Moody’s, rischia di affrontare (come gli USA e la Spagna, per citare due casi eclatanti) lo scoppio della bolla immobiliare, proprio mentre si completerà il cambio della leadership, nei prossimi mesi. Il PIL cinese è ancora a tassi elevati, ma piuttosto moderati rispetto agli anni precedenti di crescita a due cifre, la cui spinta propulsiva diventa sempre più debole.
E veniamo all’agenda macroeconomica della settimana entrante: si inizia con mercati USA chiusi per la festività del Memorial Day, giorno che “apre” l’estate americana (che si concluderà con il Labour Day il primo lunedì di settembre), dunque lunedì giornata piatta. Si conoscerà il dato sulla fiducia delle imprese italiane e, in serata, il tasso di disoccupazione e le vendite al dettaglio del Giappone.
Martedì la Germania rilascerà la stima preliminare di un dato molto caro ai tedeschi, ovvero l’inflazione: la crescita dell’indice dei prezzi al consumo (CPI) dovrebbe attestarsi sul 2% annuo. Negli USA occhi puntati sull’indice Case/Shiller, che misura i prezzi delle case in 20 aree metropolitane USA, e che dovrebbe confermarsi in calo sull’anno, sia pure meno marcato rispetto alla lettura precedente. Poco dopo sarà la volta della fiducia dei consumatori misurata dal Conference Board, che dovrebbe attestarsi stabile sui massimi degli ultimi anni.
Metà settimana all’insegna dei dati europei e, soprattutto, italiani. Quanto all’Europa, verremo a conoscenza della crescita della massa monetaria M3, che misura la crescita del mercato del credito, negli scorsi mesi in forte contrazione a causa del peggioramento delle condizioni economiche, con conseguenze piuttosto marcate sulle imprese, che dal credito dipendono. Per l’Italia verranno resi noti i prezzi alla produzione, attesi in lieve calo, e i risultati dell’asta del BTP decennale, che l’ultima volta aveva segnato un preoccupante rendimento del 5,66%. Negli USA verrà reso noto l’indice delle vendite di case in corso, ovvero le vendite per le quali è stato concluso un contratto preliminare, ma non quello definitivo. Il dato, solitamente di scarsa importanza, assume rilevanza poiché la crisi che stiamo vivendo si è originata proprio da un collasso del settore immobiliare USA.
Giovedì assisteremo all’uscita, per la Germania, del dato sulle vendite al dettaglio (in ribasso) e sul tasso di disoccupazione (ormai strafisso intorno al minimo storico del 6,7%); per l’Italia del CPI, che dovrebbe attestare un’inflazione dei prezzi ancora sopra il 3%. Negli USA, oltre alle solite richieste di nuovi sussidi di disoccupazione (previste stabili a 370mila unità), verrà rilasciato il report preliminare sul Prodotto Interno Lordo, che dovrebbe confermare il rallentamento dell’economia a stelle e strisce. Si terrà lo stesso giorno il referendum sul fiscal compact in Irlanda.
Venerdì è giornata di dati sulla disoccupazione. Comincia l’Italia, che dovrebbe vedere il suo tasso (ufficiale, quello reale è ben più alto) in crescita al 9,9%, segue l’Unione Europea, che dovrebbe toccare quota 11%, in crescita, per finire con gli USA, dove il rapporto fra disoccupati e forza lavoro dovrebbe rimanere fermo all’8,1%, all’interno di un quadro che vede, però, rallentare la creazione di nuovi posti di lavoro e aumentare invece il numero di scoraggiati, ovvero di persone che non hanno un lavoro, né lo cercano, e che perciò non vengono più comprese nelle statistiche.