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Felipe II e l’Italia del 2011 (ovvero, come l’Italia corre verso il declino)

Sicilia, scudo d'oro di filippo II di spagna, 1556-1598

Domenica sera a Presa Diretta si parlava di precari, ovvero di gente che spesso svolge lavoro dipendente con contratti che nulla c’entrano col lavoro dipendente (per esempio quelli a progetto o addirittura i “dipendenti autonomi” con partita IVA, senza garanzie, contributi, TFR, eccetera, il tutto riducendosi, in sostanza, a schiavismo). Si parlava pure del fatto che molti italiani, non solo megalaureati, ma pure gente di minori pretese, che vuole semplicemente lavorare in modo dignitoso, finiva per scappare in Spagna, dove per fare il cameriere ti fanno il contratto di lavoro dipendente, non ti chiedono di aprire partita IVA.

La visione di Presa Diretta si intrecciava con una discussione su Twitter sul fatto che in Grecia si licenzieranno 30mila dipendenti pubblici “per ordine dell’Europa”, e si propagandava una manifestazione di un certo partito a sostegno dei greci.

In tutto questo intreccio, m’è venuta in mente una storia che fa comprendere in quale futuro l’Italia si sta infilando.

Felipe II di Spagna fu sovrano dal 1556, quando il padre Carlo V si ruppe le scatole di quell’immenso casino su cui non tramontava il sole e si ritirò in convento, al 1598. Fu (Felipe) un sovrano inetto che fece bancarotta numerose volte, un disastro di proporzioni inimmaginabili se si pensa a quanto oro e argento arrivava dal Nuovo Mondo, insomma un minchione totale.

Infatti fu uno degli eroi della Controriforma cattolica, uno degli eventi più dannosi della storia spagnola (e italiana, poiché ciò che in Italia non era dominio spagnolo era dominio della Chiesa, con l’esclusione di Venezia e Ducato di Savoia). Questo re babbeo ebbe la brillante idea di organizzare la repressione di ebrei, musulmani e protestanti (tutti definitivamente espulsi pochi anni dopo la sua morte), con un effetto catastrofico sull’economia spagnola. Ebrei, musulmani e protestanti erano gli unici che lavoravano, tutti gli altri campavano attaccati alla mammella dello Stato, in particolare nella burocrazia parassita e nell’esercito. Non stupisce, quindi, che il settore agricolo e quello, chiamiamolo “industriale” [rido] spagnoli nel Seicento crollarono, e la Spagna fu costretta a importare praticamente tutto.

La cosa non era tuttavia un problema: la Spagna era piena d’oro e poteva comprare tutto ciò che voleva. Solo che tutto quell’oro, unito al fatto che vi era fortissima domanda perché nella penisola iberica non c’era uno straccio di produttore di qualsivoglia bene, generava inflazione. A beneficiare di tutto quell’oro furono altri Paesi, quelli produttivi, cioè quelli dove la riforma protestante, con il suo credo meritocratico, aveva messo radici, in contrasto con il “tutto, compreso il Paradiso, si può comprare” del credo cattolico: non stupisce quindi che l’INVINCIBILE ARMATA fu ridotta a relitto dalle piccole (ma più agili) navi inglesi. Discorso simile si può fare per le Province Unite, mai domate. Per i Protestanti si dimostra di essere in grazia di Dio con il lavoro; per i cattolici basta donare soldi e confessarsi. Ciò spiega la tremenda pigrizia dell’economia spagnola (e italiana): più che il duro lavoro, contano i soldi o avere almeno amici che te li possano procurare. A voi l’onere di trovare corrispondenze nell’Italia contemporanea.

Torniamo a Felipe. Alla fine del suo regno, quasi la metà dell’oro importato finiva in pagamento degli interessi sui prestiti nelle casse dei banchieri genovesi, piacentini e soprattutto dei Fugger, banchieri così potenti che trattavano Carlo V come un cagnolino. La Spagna si avviò così ad un declino che sarebbe durato tre secoli: gli spagnoli continuarono ad essere parassiti, in special modo delle colonie (che avrebbero perso nell’Ottocento) e non accettavano le misure dure che sarebbero state necessarie per risollevarne le sorti. Il figlio del “nostro” Vittorio Emanuele II, Amedeo (un liberale), fu chiamato a regnare in Spagna, ma dopo due anni si mandò a quel Paese (ovvero se ne andò) perché gli spagnoli erano ingovernabili. La borghesia in Spagna sarebbe nata (NATA!) solo con il Desarrollo di Francisco Franco: la Spagna, pur sotto la cortina di una dittatura fascista, conobbe una colossale crescita economica, bloccata solo dalla crisi petrolifera (1974). Tuttavia la fine di Franco e della sua opprimente cortina diede il via ad una Spagna nuova, frizzante, che oggi ha sorpassato (in alcuni indicatori) e si prepara a sorpassare (in altri) l’Italia.

Perché, in conclusione, ho scritto tutto questo papiro?


Perché vedendo Presa Diretta e discutendo su Twitter le analogie con l’Italia del 2011 erano per nulla poche.

  1. I bassissimi tassi d’interesse arrivati grazie all’euro erano (in proporzione) come l’oro americano per la Spagna: nessuno dei due Paesi ne ha approfittato per favorire lo sviluppo economico, ma ha sprecato quella manna dal cielo;
  2. Nella Spagna di Felipe quelli che volevano lavorare venivano cacciati, mentre gli altri ingrossavano le fila di una burocrazia inefficiente e di un esercito donchisciottesco; nell’Italia del XXI secolo quelli che vogliono lavorare devono firmare contratti del cassio (compresi quelli che stanno nella PA) o si cacciano da soli dal Paese, mentre gli altri (compresi certi imprenditori) si attaccano al sempre più arido seno statale (non mi riferisco tanto ai fortunati lavoratori che hanno potuto godere, ormai anni addietro, di un contratto a tempo indeterminato e che se lo meritano ogni giorno, quanto ai vari Trota e Minetti che vengono assunti grazie agli agganci di papà o di papì da questo o quel Comune, Provincia, Regione, Stato, Ente Pubblico, con megastipendio assicurato e pensione d’oro). La burocrazia italiana, inutile dirlo, resta inefficiente, basti guardare chi guida il ministero apposito;
  3. Gli italiani, come gli spagnoli di allora e dei greci di oggi, diventeranno (diventeremo) sempre più ingovernabili, con una conseguenza non da poco. Già oggi si organizzano manifestazioni a sostegno dei greci, i tartassati dall’Europa, dicono, dimenticando un paio di cosette: 1) è dal 2004 che l’Europa riempie di cartellini gialli i bilanci pubblici della Grecia; al governo c’era Karamanlis, che fece orecchio da mercante mentre truccava i conti; i poveri tartassati greci, però, godevano della situazione, delle assunzioni nella PA, dell’evasione fiscale che era la regola, tanto che nel 2007 rielessero Karamanlis; 2) i greci oggi non hanno alcuna ragione di protestare contro il Governo, men che meno contro l’Europa: l’occupazione militare di un Paese governato da criminali votati da cornuti non è presente nei trattati europei (purtroppo, ci saremmo liberati del nostro da anni), tutto quello che poteva fare Eurostat era dire “i conti non tornano, i conti non tornano, i conti non tornano”; 3) le misure che gli “alternativi” propongono ai tagli di stipendi e lavori pubblici sono lotta all’evasione e alla corruzione, una cosa sacrosanta, ma che richiede tempo per avere frutti, mentre la Grecia non ha i soldi per pagare gli stipendi del mese di ottobre 2011. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso: i licenziamenti degli statali sono ormai inevitabili, qualunque sia l’esito della crisi. E attenzione: nel giro di qualche mese, se il percorso non verrà cambiato, pure l’Italia comincerà a scricchiolare: la necessità di fare cassa subito, aggravata da una recessione sempre più probabile, ci costringerà a tagliare stipendi, pensioni e posti di lavoro più di quanto non sarà necessario fare se agiamo ADESSO.

Se il percorso è questo, il declino italiano continuerà, probabilmente per meno di tre secoli, ma ci farà comunque piombare in una depressione che sarà più profonda e grave di quella di altri Paesi europei (Spagna compresa).

Se ne può uscire? Certo, sono mesi che scrivo di manovre alternative (vedi questo e questo, giusto per citarne due), migliori ma più impopolari di quelle proposte dal nostro governo. Invece di protestare a sostegno dei greci, dovremmo farli bollire nel pentolone in cui essi stessi si sono infilati, e protestare contro i nostri, di governanti, per chiedere una manovra vera. Più tempo si perde e più diventa probabile che pure noi saremo costretti a licenziamenti di massa e tagli di stipendio di impiegati statali (cosa che si deve comunque fare, ma in modo più morbido, con privatizzazioni e bloccando il turn over in modo più selettivo di quanto si faccia oggi, quando il turn over serve a licenziare insegnanti e fare classi pollaio per permettere al ministero di assumere megadirigenti che immaginano l’esistenza di tunnel dalla Svizzera agli Abruzzi). Non mi stupisce che gli ultimi mohicani di un’ideologica politica sgretolatasi vent’anni fa nel giro di pochi mesi non siano in grado di capire l’ovvio, e organizzino manifestazioni a favore dei greci.

Il modo migliore, credo, per chiudere questo papiro di confronto fra la Spagna di Felipe II e l’Italia di oggi, è citare una certa canzone: «dobbiamo fare presto perché più che il tempo passa il nemico si fa d’ombra e s’ingarbuglia la matassa». La canzone è “Don Chisciotte“, protagonista del più grande romanzo spagnolo, usato per denunciare, già poco dopo la morte di Felipe, la totale inadeguatezza della classe dirigente spagnola per affrontare le sfide del mondo che sarebbe nato nel 1648 a Westfalia (per dire, gli spagnoli si accorsero che qualcosa stava cambiando solo undici anni dopo).

Allo stesso modo ciò che va denunciato è l’inadeguatezza della nostra classe dirigente, e non solo di Berlusconi, ma pure delle opposizioni (compresi SeL, Grillini e IdV, su cui magari mi dilungherò altrove), basti rivedere l’intervista di domenica di Pierluigi Bersani a Che Tempo Che Fa, il quale, dopo avere annunciato che si sarebbe ritirato dopo la prossima legislatura (da quella stessa poltrona Veltroni annunciò che se ne sarebbe andato in Africa), si inventava un’assurda definizione di “spread” e si appropriava di meriti non suoi (il successo del referendum elettorale).

Ecco, se esiste qualcosa contro cui protestare, questa cosa sono questi vecchiacci fuori dal tempo, che nella migliore delle ipotesi sono in politica da oltre vent’anni.

Ora anche basta. Il mondo è cambiato e chiede competenze più fresche e ideologie meno anacronistiche (meglio ancora, nessuna ideologia).

Photo credits | Sailko [GFDL or CC-BY-SA-3.0], via Wikimedia Commons

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