L’ultima volta che parlammo di economia italiana credo fosse una decina d’anni fa, negli anni Sessanta. Riprendiamo con un breve riassunto degli ultimi vent’anni per capire poi come sarà l’economia italiana negli anni Settanta, visto che questo topic sarà fondamentale per capire i successivi quarant’anni di storia italiana (e di questo passo pure i prossimi quaranta).
I miracoli non esistono. Miracoloso boom economico non significa che le cose vadano bene. L’apparenza spesso inganna: gli italiani, dalla fine della guerra all’inizio degli anni Settanta sono diventati senza dubbio più ricchi: nel 1960 solo il 20% delle famiglie italiane possedeva un televisore, solo il 5% una lavatrice e solo un 17% un frigorifero. Dieci anni dopo queste percentuali sarebbero salite a 82, 63 e 86. Fatto 100 il PIL del 1946, quello italiano sarebbe salito nel 1971 fino a 392, secondo solo a quello tedesco a (392) e giapponese (700). Notevole, ma con grossi ma.
Tecnologia batte lavoro. L’economia italiana aveva limiti che una classe politica sostanzialmente analfabeta (in economia) non poteva comprendere. Gran parte del benessere, infatti, proveniva dallo sviluppo di settori industriali ad alta intensità di lavoro e non ad alta intensità di tecnologia. Purtroppo per noi, questa scelta, se da un lato aumenterà il benessere dei nostri nonni e genitori, dall’altro ha impoverito e impoverirà la mia generazione: infatti, nel lungo periodo, ciò che conta è la tecnologia, ovvero gli investimenti in ricerca scientifica. Questo ha reso l’Italia un Paese di serie B rispetto a tanti altri Paesi occidentali, un Paese, tra l’altro, in declino: teniamolo bene a mente, perché non si investe in ricerca neppure oggi, quindi stiamo condannando i nostri figli e nipoti a passare un’esistenza peggiore della nostra (o a emigrare). Non si fa ricerca per lustro, prestigio o cose così: chi fa ricerca fa i soldi nel mondo moderno. Se un Paese non fa ricerca, non fa soldi e i cittadini cominciano a fare la fame a coorti sempre più grandi.
Sul perché in Italia si sia puntato tutto sul lavoro invece che sulla ricerca è presto detto: gli altri Paesi, specialmente i vincitori della guerra, non avevano riserve di manodopera da convertire dall’agricoltura all’industria e al terziario. Se negli Stati Uniti solo il 9,3 era occupato in agricoltura, in Italia lo era il 35,6% (per un confronto: Regno Unito 4,4%, Francia 24,6%, Germania 16,3%). Tanta manodopera significa tanta offerta di lavoro, tanto offerta di lavoro significa operai più economici. Nei Paesi più sviluppati, invece, l’unica possibilità per continuare a crescere era puntare sullo sviluppo tecnologico, ovvero puntare su attività più complesse, lasciando la manodopera a Paesi arretrati (per questo l’iPhone, creato negli USA, viene assemblato in Cina).
C’è chi può e chi non può. Altro punto, il sistema fiscale: in Italia i più ricchi non pagavano abbastanza tasse (rispetto a quanto pagavano i più poveri); e comunque, se dovevano pagarle, evadevano. Questo poteva anche andare bene fin quando c’erano poveri e mediopoveri da spremere (perché i loro salari crescevano). Ma quando l’età dell’oro finirà, anche i quattrini finiranno, e questo comporterà la fine dei consumi pubblici e sociali (il che significa meno case, strade, scuole, ospedali, treni, eccetera). Non sto parlando del 2010, ma degli anni Settanta, lo so che sembra la stessa solfa del presente, ma credetemi, era così già allora. Non è cambiato niente.
Carrette del mare via treno. Prossimo: il divario fra nord e sud. Ho già scritto un articolo sulle origini di questo divario, devo solo sistemarlo e pubblicarlo. Comunque va detto che i Savoia, quando procedettero all’annessione del regno delle Due Sicilie, promossero politiche disastrose per il Sud e quando cominciarono a correggere tali storture, finì che il Nord si ritrovò avvantaggiato grazie alla maggiore vicinanza con l’Europa e si sviluppò industrialmente. Il Sud, la cui industria era ancora embrionale e priva di un sistema all’alba dell’Italia, rimase arretrato. Nel dopoguerra si tentò di creare un nuovo embrione industriale con soldi pubblici: a parte piccoli successi, come le auto a Pomigliano d’Arco, si crearono grandi poli industriali che però da un lato necessitavano di manodopera specializzata che il Sud non poteva fornire, dall’altro svolgevano quasi tutte le attività al proprio interno, quindi non stimolavano l’economia circostante (non creavano indotto) e perciò erano delle cattedrali nel deserto. Come risultato vi fu l’emigrazione verso il Nord: nel 1960 non era raro incontrare, davanti al grattacielo Pirelli, accanto alla stazione centrale di Milano, meridionali appena arrivati nella capitale economica d’Italia con delle valigie di cartone, come immortalati da Uliano Lucas (( Pagherei per farvi vedere la foto che ho davanti, ma non la trovo in giro in rete, “purtroppo” Lucas è ancora vivo e non penso l’abbia rilasciata in licenza libera. )) . Qualcuno si spinse anche più a nord, fino in Germania (pensate a Di Pietro, che fece parte dell’ultima grande ondata migratoria, al principio degli anni Settanta). Va sottolineato, comunque, che i flussi migratori interessavano anche le regioni dell’est, tipo il Veneto, verso Lombardia e Piemonte. Poiché continuava ad esservi una grande folla che s’inurbava, le imprese del nord continuarono a non investire in tecnologia, preferendo puntare ancora sugli operai. Ma prima o poi la pacchia doveva finire: gli operai non sono televisori che puoi rimpiazzarli quando si usurano. E infatti già negli anni Sessanta l’Italia sfiorò la piena occupazione, e da quel punto si può solo declinare.
Capitali coraggiosi (ma anche no). Negli anni Sessanta, poi, muore (ammesso che sia nato) definitivamente il capitalismo italiano per colpa di una classe industriale inetta e per nulla coraggiosa: quando il centrosinistra nazionalizza ENEL e simili e avvia la programmazione economica, gli industriali, invece di fare come avvenne nel 1905 dopo la nazionalizzazione delle ferrovie, decisero di non investire in nuovi settori di attività (come la chimica), portarono i soldi all’estero e persero un’occasione storica. Ogni volta che usate il Dash o il Dixan per fare la lavatrice, pensateci: voi usate questi prodotti stranieri perché gli industriali italiani furono pusillanimi. Invece il mercato dei detersivi se lo pappò la Procter and Gamble (in una puntata passata scrissi che gli italiani producevano le lavatrici, ma non i detersivi). Oltre sette miliardi di dollari entro il 1969 sarebbero stati trasferiti clandestinamente all’estero, prosciugando il mercato dei capitali in Italia, che ancora oggi dipende dai soldi dello Stato (vedasi il caso Alitalia o quello della FIAT), ovvero, in ultima analisi, dipende dalle nostre tasse.
Insomma, lo sviluppo italiano, per quanto miracoloso, aveva forti limiti, che però la classe politica non riusciva a decifrare (così come non riusciva a decifrare il terrorismo che stava nascendo). In compenso iniziarono a decifrare le possibilità di lucrare dalla propria posizione: all’inizio degli anni Settanta si scoprirono i primi fondi neri utilizzati per finanziare illecitamente (leggi: corrompere) i partiti.
La pacchia è finita. Qual è la scintilla che fa implodere l’Italia? La scomparsa del basso costo delle materie prime. Uno dei pilastri del boom italiano, infatti, fu proprio questo: l’Italia poteva pagare poco materiali fondamentali per l’industrializzazione, ma di cui il territorio nazionale era povero. L’altro pilastro, il basso costo della manodopera, già stava scomparendo dal 1963, quando gli operai cominciarono a rivendicare salari più alti.
Il giorno in cui gli sceicchi chiusero i rubinetti. Il problema è che, a differenza della manodopera, il boom delle materie prime fu improvviso e incontrollabile. In particolare fu fondamentale la dipendenza dal petrolio: nel 1973, infatti, scoppia la crisi petrolifera. A seguito della guerra dello Yom Kippur i Paesi affiliati all’OPEC chiusero i rubinetti del petrolio, e il mondo occidentale, grande importatore, vide esplodere in un battito d’ali il prezzo di tutto quanto fosse collegato al petrolio (cioè tutto quanto rappresentava l’uomo industriale) a prezzi record (dai 2 dollari del 1971 passò nel 1973 a 30 dollari al barile (( Posso immaginare la vostra faccia, ma non è un errore di battitura, è proprio trenta. E poche righe più sotto 50 sarà cinquanta. )).
Lo Yom Kippur fu, però, soltanto la scusa per provocare l’esplosione del prezzo. Infatti già negli anni precedenti il prezzo del petrolio era aumentato per inseguire l’aumentato costo dei manufatti che i produttori di petrolio importavano. Nel 1971 il presidente Nixon aveva provocato la fine della convertibilità in oro del dollaro e la sua svalutazione. Dato che il petrolio era venduto in dollari, era ovvio che la sua debolezza avrebbe comportato, prima o poi, un rialzo del prezzo del greggio, esattamente come avviene oggi, e una situazione del genere non sarebbe stata accettata a oltranza dai Paesi esportatori di greggio, che approfittarono della guerra per chiudere i rubinetti. E siccome l’economia occidentale galleggiava sul petrolio, potete immaginare le conseguenze. (( Ve ne dico una “folkloristica”: Chrysler, sostanzialmente, fallì. Niente di nuovo, insomma. )).
Di sicuro non potevano immaginarle gli economisti (perlopiù keynesiani) dell’epoca. Furono infatti costretti a coniare un nuovo termine, stagflazione, per denotare una situazione (fino ad allora impensabile) in cui la stagnazione dell’economia è accompagnata da forte inflazione, ovvero forte rialzo dei prezzi. Impossibile perché fino ad allora si pensava che se l’attività economica rallentava i prezzi sarebbero dovuti scendere. E invece, negli anni Settanta, i prezzi crebbero, in Italia, del 15% l’anno, mentre la crescita del PIL rallentava o diventava negativa.
Clop clop clop. L’Italia, come il resto del mondo, rispose all’inflazione galoppante con manovre deflazionistiche, che se però riuscirono a porre un argine (ma non ad abbattere) alla crescita dei prezzi, dall’altro aggravarono la recessione e fecero schizzare alle stelle l’interesse da pagare sul debito pubblico, ponendo le basi per le conseguenze che ben conosciamo oggi. L’inflazione però non s’arrestò e, in questo gioco al massacro, ebbe un ruolo fondamentale una delle conquiste dei lavoratori negli anni precedenti: la scala mobile, un meccanismo che aggiustava i salari all’aumentare del costo della vita. Può sembrare una cosa bella, ma l’aumento automatico dei salari aumenta l’inflazione, che aumenta i salari, che aumentano l’inflazione e così via. Dato che i soldi non cadono dal cielo prima o poi questo meccanismo perverso sarebbe fallito, e sarebbe stato modificato e quindi abolito.
L’accresciuto costo del lavoro rese anche meno competitive le imprese italiane perché, essendo molto furbe (( Il sarcasmometro esplode. )) , basavano il loro successo sul basso costo del lavoro, e non sull’innovazione. Il risultato è l’Italia 2010. E ancora stanno a litigare sul costo del lavoro: l’innovazione e la ricerca sono nelle mani non delle industrie, bensì del Vaticano (( Sono venuto a sapere che una nota organizzazione fondamentalista cattolica finanzia la ricerca in matematica. Ci sono rimasto di sasso. )) , mentre la ricerca di Stato, quella di base, annaspa.
Come ti risolvo il problema dei diritti dei lavoratori. Chiaramente, se aumentano i salari, diminuiscono i profitti, e se diminuiscono i profitti, le imprese non assumono mica, anzi, licenziano. Fortunatamente c’era la CIG e uno Stato non ancora indebitato in modo cronico: ma comunque, per venire incontro a queste esigenze, il debito pubblico passò dal 30% dell’inizio della decade al 60% del 1982. L’esplosione del debito pubblico, anche se in parte fu utilizzato per scopi clientelari, era keynesianamente giustificabile. Il brutto sarebbe venuto negli anni Ottanta, ma ci torneremo.
Per sfuggire a questa crisi le imprese italiane pensarono bene di agire in due modi: aumentare il lavoro nero e decentrare la produzione. Visto che il Vietnam non era ancora quell’isola felice che è oggi (ovvero terra di schiavi a buon mercato), la produzione venne decentrata alle piccole imprese, dove il sindacato era meno presente e i diritti più evanescenti (pensate, ad esempio , all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori). Risultato: le piccole imprese non hanno certo quattrini per finanziare la ricerca scientifica e tecnologica, per cui questa scelta aggraverà la situazione economica italiana nel lungo periodo degli anni Settanta, che è oggi. (( Lo so, sono ripetitivo. )) Il lavoro nero, allo stesso modo, nel lungo periodo, non paga (lo stipendio).
Questa situazione continuerà negli anni Settanta con tratti più o meno simili, considerando anche che la storia si ripeterà praticamente punto e a capo, a cominciare da una nuova crisi petrolifera verso la fine del decennio (fino a 50 dollari a barile, che sarebbero 80-90 dollari di oggi).
L’Italia fuori moda. Il mondo poi ne uscirà, e l’Italia no. Perché? Perché nel mondo, in particolare in America, si passò da Keynes a Friedman, ovvero dallo Stato interventista e spendaccione allo Stato minimo, al neoliberismo. Questo significò rigore economico: meno tasse e meno spese, più iniziativa privata, avvio delle privatizzazioni (in Italia solo verso gli anni 2000, con un paio di decenni di ritardo, sul perché ci torneremo). E, purtroppo, anche meno garanzie sociali. Questo è un argomento di attualità ancora oggi: conciliare rigore e necessità di intervento dello Stato. Anche il neoliberismo, infatti, vedrà emergere i suoi difetti.
Le minori spese, comunque, servirono a raffreddare l’economia, il che si tradusse in una diminuzione dei prezzi delle materie prime e del petrolio, poiché veniva meno la domanda. Importante furono anche le iniziative di risparmio energetico e di diversificazione delle fonti di energia, che quietarono le pressioni del greggio.
Per sempre nella memoria. L’Italia verrà colpita come gli altri Paesi, ma ne uscirà (( ! )) peggio degli altri. Il Paese ricorderà per sempre le giornate in cui vi fu divieto di circolare con le automobili; espressioni come “inflazione galoppante” diventeranno proverbiali (e su Topolino nel 1983 o giù di lì apparirà una storia intitolata proprio “Zio Paperone e l’inflazione galoppante”). La politica, tuttavia, non sarà in grado di seguire né gli sconvolgimenti sociali in atto nel Paese (si pensi al referendum sul divorzio), né di capire che era il momento di diventare neoliberisti (non lo fecero, perché, come ho già detto più su, in quegli anni stavano iniziando a capire che si potevano fare i soldi con la politica, e il debito pubblico sarebbe esploso a causa delle sempre maggiori politiche clientelari che verranno varate negli anni Ottanta), anche perché tutti furono distratti dalle bombe e dai sequestri che funesteranno gli anni Settanta italiani.
Quando questa situazione terminerà, al principio degli anni Ottanta, l’Italia vivrà un breve periodo di prosperità, di cui però non approfitterà, poiché la classe politica dell’epoca, oltre che inetta, si rivelerà essere pure assai criminale. Sarà quindi un canto del cigno: negli anni Novanta inizierà il periodo di stagnazione che viviamo ancora oggi. Le colpe (e i debiti) dei padri ricadono sui figli.
La prossima volta ripartiamo dal 1971.
Photo credits | Collage di una foto in pubblico dominio (in b/n) e di una in CC-BY (di Akadruid)
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