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Non sono mica un giornale

Mario Rossi è un vegetariano. O almeno questo è ciò che crede la sua ragazza. Entrando in un ristorante, lo vedo addentare gustosamente della carne. Ritenendo la notizia di interesse pubblico (( Non lo è, ma poniamo lo sia )) decido di denunciare il tutto sul blog.

Mario Rossi mi manda una mail in cui mi intima di rettificare: quello che gli ho visto mangiare era Tempeh, la cosiddetta carne di soia. Si possono avere due casi:

L’obbligo di rettifica, in sé, non è il male. Il problema è che si vuole applicare a questo bloggherello una norma che vale per gruppi editoriali con un fatturato da milioni di euro. Io qui sono solo e non mi paga nessuno, la redazione di Repubblica ha decine di giornalisti pagati appositamente per prendersi in carico la verifica della rettifica due minuti dopo l’arrivo nella casella di posta.

Io non metto in dubbio il mio dovere di dire la verità. Io contesto il fatto che questo obbligo di rettifica sia congegnato in modo tale da limitare il mio diritto di dire la verità. Sono un semplice individuo, sono per definizione parte debole, ho bisogno di garanzie maggiori: prima di essere multato, devo essere trovato colpevole di qualcosa, che non può essere semplicemente “non avere letto in tempo la posta”.

In tal caso, nulla cambia se mi allunghi l’obbligo a sette giorni, a un mese o a un anno. Potresti anche aver mandato l’email a qualcun altro, caro Mario Rossi. L’obbligo di rettifica dovrebbe scattare dal momento in cui hai certezza che io ho preso visione della richiesta, non dal momento dell’invio.

Il tutto fermo restando che nel nostro ordinamento esistono già i reati di calunnia, ingiuria e diffamazione, dunque Mario Rossi potrebbe semplicemente denunciarmi. Ma allo stato a Mario Rossi questa cosa non conviene a meno che io non abbia detto veramente il falso. L’obbligo di rettifica, allora, appare una forma di giustizia privata.

Bisogna poi ricordare che in Italia la rete (e l’informazione in generale) sono già demoliti da una legislazione che favorisce l’avvio di cause civili temerarie, ovvero al solo scopo di intimidire, visto che non solo richiedono uno sforzo in termini di tempo e di denaro in avvocati a convenuti che spesso non hanno quanto serve per affrontare i prepotenti, ma non richiedono neanche al giudice di stabilire se uno abbia detto il vero o il falso (questo accade nelle cause penali, che i temerari ovviamente non avanzano mai). E se putacaso i temerari dovessero perdere perché io ho la testa dura e non mi faccio intimidire, finisce, al massimo, che mi pagano gli avvocati: non esiste una misura che costringa gli attori perdenti a pagare qualcosa (magari non a me, ma allo Stato) per averci fatto perdere tempo e risorse che si sarebbero potuti utilizzare per cause vere.

L’obbligo di rettifica, quindi, aggrava il terribile problema della magistratura usata non per fare Giustizia, bensì per farsi giustizia da sé, ovvero tutto il contrario di ciò che dovrebbe essere in un Paese civile. Si tratta, in altre parole, di un ritorno a prima della Rivoluzione francese (semmai l’Italia sia arrivata al dopo, cosa di cui dubito), ovvero alla legge della giungla, dove vince il più forte.

La fine del bavaglio ai giornali, di cui si è parlato nei giorni scorsi, non ha fatto che togliere un cucchiaino ad un intero pasto completo a base di mer*a. Oltre all’obbligo di rettifica, restano, ancora e ben più gravi del mio diritto di farmi leggere da un paio di persone, limiti assurdi alle intercettazioni che favoriscono la privacy dei criminali e che, nel complesso, rendono più poveri i cittadini onesti, quelli che pagano le tasse anche per i mafiosi e per gli evasori.

Che vogliamo fare, vogliamo mangiare o vogliamo tirargli i piatti in faccia?

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