C’è un emendamento in Finanziaria che prevede che i beni confiscati alle mafie possano essere messi all’asta.
Qual è il pericolo: la mafia è l’impresa più liquida d’Italia, e non ci mette niente a trovare un prestanome e a ricomprare i beni confiscati, il tutto con i soliti amministratori locali e non che guardano da un’altra parte. Adesso, grazie allo scudo fiscale, i mafiosi potranno addirittura utilizzare denaro ripulito dallo Stato stesso per riprendersi ciò che era loro. Il tutto per relativamente pochi spiccioli rispetto ai danni che lo Stato stesso subisce a causa delle attività mafiose.
Ovviamente la società civile si è mobilitata, e ormai non si contano più le adesioni all’appello di Libera. Oggi è toccato ai magistrati che lavorano in questo campo e al CNEL. Un mafioso ci chiamerebbe comunisti.
Ma non è una questione politica, è una questione di buonsenso: i danni che la mafia può fare con quei beni sono immensamente superiori ai guadagni che lo Stato può ottenere dalla vendita di tali beni. È un favore alla criminalità organizzata, un altro, l’ennesimo, con buona pace di Roberto Maroni che si esalta quando i carabinieri sequestrano spiccioli (spiccioli che poi grazie alla nuova legge torneranno presto alla mafia).
Quel che va fatto, invece, velocizzare le procedure di confisca e di destinazione a fini sociali, anche e soprattutto per sostenere coloro i quali dalla mafia sono stati danneggiati perché possano riappropriarsi della propria vita.
Purtroppo, e lo sappiamo bene, fra i sostenitori di questo scempio c’è chi, in buona fede, è convinto che bisogna fare cassa in qualche modo (come nel caso dello scudo fiscale, dove per ogni miliardo incassato oggi se ne perdono dieci domani, ma l’importante è galleggiare, dicono); e chi è semplicemente mafioso. E queste due categorie, ahimé, hanno ampia rappresentanza in Parlamento.