Si parla molto dei referendum del 21 giugno. La maggior parte dei politici ha già dichiarato il “si” ai tre quesiti; altri, ovviamente, il “no”. Tra i tanti, la Lega. Per ora è pacifico che la mobilitazione popolare riguarderà la pronuncia sulle modifiche alla legge elettorale. Perfetto. Ma cosa cambierà? Fermiamoci un attimo: quanti in realtà conoscono la risposta?
A prescindere che questo referendum costituisce una deroga (nonché un pericoloso precedente in ottica futura), in quanto la legge prevede che la proposizione di domande di tal genere venga posta tra il 15 aprile e il 15 giugno (art. 34 della L. 352/70), una sparuta minoranza andrà a leggere i caratteri minimi che precedono il “SI” e il “NO” presenti sulla scheda e che, comunque, scendono molto in dettagli incomprensibili ai più.
Fornisco – per la cronaca – un estratto della prima domanda, per “chiarire”: Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, titolato “Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei Deputati”, limitatamente alle seguenti parti:
art. 14-bis, comma 1: “I partiti o i gruppi politici organizzati possono effettuare il collegamento in una coalizione delle liste da essi rispettivamente presentate. Le dichiarazioni di collegamento debbono essere reciproche.” […].
L’italiano medio potrebbe non sapere cosa sia un D.P.R., cosa siano modificazioni ed integrazioni; come sia strutturata una qualsiasi legge, insomma. Deducibile (e chiaro) che si tratta di abrogazioni: quindi SI = eliminazione di parte della legge; NO = mantenimento del testo così come è.
Per quanto riguarda i quesiti nella loro integrità, i primi due (schede verde e bianca) si basano sul premio di maggioranza alla lista più votata e innalzamento della soglia di sbarramento. Per chiarire la situazione, allo stato, la coalizione che prende più voti alla Camera ha un numero di onorevoli di “bonus” rispetto alle altre; stessa cosa avviene in Senato, ma su base proporzionale regionale. Non solo, ora una coalizione può avere propri rappresentanti in Parlamento se supera il 4% dei consensi sui voti in ambito nazionale: in pratica, se un partito X della “coalizione X” prende l’1%, può aver diritto a schierare onorevoli e senatori; se un partito Y, invece, corre da solo e ha l’1% dei voti, non potrà entrare nelle Camere.
Se fosse abrogata parte della legge, vi sarà un nuovo scenario: solo il partito che prenderà più voti usufruirà del premio di maggioranza e tutti i partiti, tralasciando quindi le coalizioni, saranno soggetti alla soglia di sbarramento al 4%. In Senato, invece, il limite passerà all’8%.
Il terzo quesito (scheda rossa), in caso affermativo, cancellerebbe le “candidature multiple”: ora un politico può schierarsi in tutti i territori nazionali, decidendo il “destino” per gli altri membri della sua lista. Se passasse il “SI”, al contrario, i vari Berlusconi, Franceschini o Casini saranno presenti solo in una tra Lombardia, Puglia, Basilicata (ad esempio)…
Quorum permettendo. Se la “metà” degli aventi diritto non vota, la disciplina ora vigente, logicamente, rimane.
Considerando che non è facile riassumere la materia ai minimi termini, si spera che essa sia un tantino più comprensibile… Strano: politici, giornali e diretti interessati non ne parlano troppo spesso.