Martedì il colosso francese Lactalis, proprietario, tra gli altri, di Galbani e Invernizzi, ha annunciato di avere raggiunto un accordo con tre fondi esteri (Zenit Asset Management AB, Skagen AS e Mackenzie Financial Corporation) per l’acquisto delle azioni Parmalat da essi detenute, pari al 15,3% del capitale della società di Collecchio. Aggiungendo a questa quota le azioni già in possesso di Lactalis, i francesi sfiorano la soglia del 30% oltre la quale scatterebbe l’obbligo di OPA, rendendo dunque esplicita la fermissima intenzione di giungere al controllo di Parmalat.
Parmalat, dopo i guai della gestione Tanzi, è oggi un’azienda sana e, grazie alla prudente gestione di Enrico Bondi, piena di liquidità. Tuttavia l’azienda non rappresenta un boccone molto appetitoso solo per questo motivo: essa è infatti uno dei pochi esempi italiani di public company, ovvero di aziende con azionariato diffuso, in quanto un’importante parte degli azionisti è composto da ex creditori di Parmalat (quelli che hanno perso tutto dopo il crac) cui sono state assegnate azioni della nuova società guidata da Bondi. Questa caratteristica, come ai tempi di Telecom, rende Parmalat una facile preda: al 24 febbraio 2011, il 78% di Parmalat è infatti in mano ad azionisti con meno del 2%.
Molte sono state infatti le manifestazioni di interesse per il gruppo alimentare italiano, come quelle di Granarolo e Ferrero. L’ingresso nell’arena di Lactalis, però, ha preoccupato il governo italiano, che ha deciso (in modo poco liberale) di entrare a sua volta in gioco a difesa dell'”italianità” del gruppo (che, in soldoni, significa andare incontro agli allevatori italiani, preoccupati che Lactalis possa costringere Parmalat a usare materia prima estera): l’intenzione era favorire la cordata italiana, organizzata da Intesa-SanPaolo, che pure era in trattativa con i tre fondi esteri per rilevare le loro azioni.
Grazie a questo risiko si è sviluppata nelle settimane passate una fiammata speculativa, che aveva, con buona probabilità, le spalle larghe proprio grazie a Lactalis, che si è dedicata al rastrellamento di azioni Parmalat, portando il titolo a sfiorare la soglia dei 2,8 euro nella giornata di giovedì, e 2,8 è proprio il prezzo offerto da Lactalis ai fondi esteri.
L’intervento farraginoso del governo italiano ha spinto Lactalis a cambiare strategia: il gruppo francese è andato a vedere il bluff degli italiani, facendo un’offerta che i fondi esteri non potevano rifiutare e a cui gli italiani non potevano rispondere, poiché si trattava della solita cordata all’italiana, priva di capitali. Partita chiusa.
L’interesse del mercato per Parmalat è quindi crollato, e il titolo ha perso quasi il 20% in tre sedute. Le vittime sono o saranno i piccoli azionisti, ovvero gli ex creditori che speravano che le sorti di Parmalat si risollevassero fino a ripagare almeno in parte ciò che hanno perduto: infatti, se la cordata italiana non rilancerà con una costosissima (e perciò implausibile) OPA, Lactalis vincerebbe la partita e le azioni rimanenti sul mercato rischierebbero di rimanere a livelli piuttosto bassi rispetto ai 2,8 euro pagati dai transalpini, poiché non sono più interessanti a fini di controllo; se invece il governo dovesse trovare una strada per escludere Lactalis, la palla passerebbe alla cordata italiana, che, priva di capitali e di concorrenti e “protetta” dal governo, finirebbe per chiedere e ottenere un prezzo inferiore, oppure, nel caso peggiore, fare un’offerta più alta utilizzando la leva, ovvero un debito, che verrà ripagato, ad operazione conclusa, con i soldi di Parmalat, che ne risulterebbe in sostanza impoverita, dimostrando ancora una volta povertà finanziaria, industriale e politica italiane.
La battaglia per Parmalat si concluderà entro il 14 aprile, data dell’assemblea degli azionisti che rinnoverà il consiglio di amministrazione. Non si sa ancora con certezza chi vincerà, ma già pare evidente che sul campo di battaglia rimarranno i soliti piccoli azionisti. Forse l’azione del governo avrebbe dovuto puntare alla massimizzazione del valore dell’azienda, con l’obiettivo di tutelare non i soliti interessi corporativi, non i soliti salotti, bensì, per una volta, i piccoli azionisti, veri proprietari del “Gioiellino”, già truffati una volta da Calisto Tanzi e dalle autorità di vigilanza che non hanno vigilato. Intervenire adesso sembra semplicemente inutile e controproducente.
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