Entrambe le ipotesi, per motivi che già conosciamo (uno e due), colpiranno le classi sociali più deboli, per non parlare del futuro del Paese. Va ribadito ciò che è stato detto: l’euro, per quello che serve, ha funzionato meglio della lira. Se sparisse, ci impoveriremmo di botto poiché ci ritroveremmo in mano della carta straccia al posto delle banconote, mentre le classi più agiate avranno già messo al sicuro tesoretti in altre valute, continuando a campare.
Questo è il destino del Paese nel caso in cui i partiti contrari all’euro dovessero continuare la loro marcia trionfale verso il Parlamento, mentre invece, ora più che mai, serve una politica in grado di correggere le storture dell’Unione Europea. Il problema, infatti, non è l’euro, ma il fatto che il governo delle politiche economiche (e quindi della moneta) è in mano a due decine di Paesi diversi (che possiamo, al massimo, raggruppare in due macroaree, quelli che stanno bene – sempre meno – e quelli che stanno male – e peggiorano – , ma il livello di schizofrenia non cala poi di molto).
Occorre maggiore integrazione europea. Occorre una politica economica comune che sia in grado di riconoscere che la stessa ricetta non può funzionare per tutti, che in molti Paesi europei l’austerità imposta dai tedeschi e dai sempre meno numerosi alleati primi della classe comporterà solo l’aggravarsi della recessione, rendendo sempre più difficile l’uscita dalla crisi, non solo per gli ultimi, ma pure per i teutonici, anche e soprattutto nel caso in cui qualche Paese uscisse dalla moneta unica. Occorre capire che è sì necessario che gli obiettivi nazionali di finanza pubblica convergano ad uno standard europeo, che i tagli alle spese servono, ma che comunque tutto questo non può essere sufficiente, né lo è (nonostante sia auspicabile, per quanto molto difficile) tagliare le tasse se non si programmano nuovi investimenti, perché l’Eurozona è debolissima anche dal punto di vista della domanda aggregata.
In molti Paesi questi problemi non sono risolvibili dentro i propri confini: serve una politica europea, un New Deal che faccia rialzare la testa ai Paesi strozzati da sé stessi (come la Grecia, ma pure gli altri maiali s’avviano al macello) per evitare che accada lo stesso anche nel resto della UE. Uscire dall’euro non servirà ad altro che aggiungere crisi a crisi: l’Italia, ad esempio, non può farcela a colmare quel buco nella domanda da sola perché il debito pubblico è già a dimensioni esagerate, e con un costo spaventoso (senza contare che gli ingranaggi del sistema Paese continuano ad essere bloccati dalla ruggine delle corporazioni, delle caste, dei sindacati, eccetera). Altri Paesi, le triple A, quelli che stanno meglio (per ora), sono riusciti a rimanere a galla proprio perché lo Stato è intervenuto a colmare quel buco espandendo la spesa pubblica di diversi punti rispetto al PIL, in molti casi molto più dell’Italia, dove anzi i cosiddetti stabilizzatori automatici sono stati tagliati.
Appare ovvio che ci siano Paesi che hanno beneficiato troppo dell’euro, tenendolo in ostaggio, a scapito di altri Paesi, che però ci hanno messo del proprio per finire in questo labirinto, rinviando riforme strutturali fondamentali, continuando a sprecare e non approfittando dei bassi tassi di interesse dell’ultimo decennio per investire. Appare quindi ovvio che il primo gruppo di Paesi debba aprire il portafogli e coprire gli scompensi, come pure che il secondo gruppo si dia una credibile regolata.
Cosa c’entra l’euro in tutto questo? Niente. La colpa non è della moneta, bensì dei governicchi che giungono ad accordicchi pazzoidi e che non sono neppure in grado di spiegare all’opinione pubblica europea che qui o si fa l’Europa o si muore.
In quest’ottica, non ci si può stupire del fatto che l’esasperazione produca mostri: in Grecia i neonazisti, in Francia i nazionalisti al 20%, in Italia il Movimento 5 Stelle subentra alla Lega Nord, con un programma che, sebbene più “allegro” e positivo degli altri partiti appena citati, resta fortemente populista ed estremamente lacunoso dal punto di vista economico.