Per Diritto di Critica (si commenta lì)
La settimana scorsa l’Istat ha reso noto il tasso di disoccupazione per il mese di febbraio: la cifra è 9,3%, dato più alto dal gennaio del 2004. Il calo degli occupati riguarda praticamente solo le donne, aggravando una situazione già pessima, visto che buona parte della ripresa economica italiana dovrebbe passare per un aumento dell’occupazione femminile. In aggiunta, un terzo dei giovani sul mercato del lavoro è disoccupato. Il tasso ufficiale, tuttavia, sottostima quello reale per varie ragioni squisitamente contabili, sicché la situazione sarebbe ben più tragica.
Tragici, però, sono anche i commenti della sinistra più demagogica, che ripetono la tesi: «Monti pensi ai disoccupati, ai giovani, alle donne, eccetera, non all’articolo 18». Come se l’articolo 18 (ma più in generale lo scheletro normativo del mercato del lavoro italiano) nulla c’entrasse con la crisi occupazionale che attanaglia il Paese (per non dire del fatto che il Sud Italia ha un tasso di disoccupazione “spagnolo”).
Il mercato del lavoro italiano, da quando è finito il boom economico del dopoguerra foraggiato dai soldi americani, dal ridicolo costo del petrolio e dal basso livello dei salari, è andato via via arrugginendosi, come un po’ tutta la macchina statale del resto. Le riforme degli anni Settanta ebbero il merito di dare un po’ di sicurezza in più ai lavoratori, di migliorarne le condizioni di vita, ma quel sistema del lavoro è infine diventato obsoleto in un mondo cambiato in fretta.
Il mercato è diventato troppo rigido per il nuovo paradigma economico, dunque la politica, con grave ritardo, propose una riforma (o meglio due, la Treu e la Maroni) per rendere il lavoro più flessibile: il risultato, frutto dei soliti mercanteggiamenti fu il mercato che abbiamo oggi, dualista, con metà dei lavoratori iperprotetti e pure male e l’altra metà non protetta, ma che ben servì a elettori ed iscritti ai sindacati, già inseriti nel mercato del lavoro. La sinistra e i sindacati salvarono i propri iscritti, la faccia e gli slogan su articolo 18 e san Giuseppi vari, la destra poté vendere la schiavitù di coloro che invece non erano ancora nel mondo del lavoro, ovvero i giovani condannati alla precarietà (pardon, all’epoca la chiamarono “flessibilità”).
Oggi, una decina di anni dopo, si nota che questo sistema non funziona: detto in breve, alle imprese costa troppo sia assumere che licenziare, mentre al lavoratore e al disoccupato arrivano stipendi e sussidi (quando arrivano) per niente eccezionali, e comunque costosissimi per lo Stato. Se il mercato del lavoro ideato negli anni Settanta non funziona più, e se non funziona quello ideato negli anni Novanta/Zero (più che altro una disonesta integrazione del precedente per schiavizzare chi sarebbe entrato nel mercato in seguito, per proteggere chi era già dentro), forse forse (forse) vanno ripensati entrambi?
La risposta per le sinistre più demagogiche è no: gli ultimi annacquamenti dovuti al pressing sindacale rendono ancora più debole l’impianto della riforma, che già faceva acqua dapprincipio, e contribuirà a scaricare la flessibilità del lavoro richiesta dal mondo moderno su chi in questi anni è già stato piegato, cioè i precari. Poco importa se così vinceranno ancora gli imprenditori schiavisti e la destra berlusconiana, che molto contribuiscono alla propria ricchezza e poco a quella del Paese intero. L’importante è salvare le apparenze, far capire che il sindacato è vivo, nonostante sia uno zombie che contribuisce a mantenere forti i parassiti. Come fanno notare Boeri e Garibaldi, questa riforma salverà (anche quando non dovrebbe essere dovuto) chi già lavora, renderà più costoso assumere, ma non risolverà neppure lontanamente il problema del precariato, problema che verrà demandato a una riforma prossima ventura, ammesso che non scoppi prima il conflitto sociale finale, visto che la coperta italiana è sempre più corta. Tutto questo solo per ottenere una «confusa riforma dell’articolo 18 per tutti i lavoratori esistenti».
La rigidità del mercato del lavoro, va ricordato, fu tra le cause che portarono all’esplosione del debito pubblico negli anni Settanta-Ottanta: la difesa dell’occupazione a oltranza e contro ogni buonsenso economico fece (non da sola, sia chiaro) più che raddoppiare il tasso di disoccupazione, portandolo da meno del 6% al 12% in vent’anni, stabilizzandosi su quelle cifre per qualche anno, a metà degli anni Novanta. La tendenza si invertì dopo il pacchetto Treu del 1997 e infine la legge 40 del 2003, che lo riportarono al 6%. Ma il costo sociale fu ed è altissimo: in cambio della blindatura dei posti di lavoro creati antecedentemente a queste date, è stato chiesto a milioni di giovani di rinunciare ad ogni tipo di tranquillità, dalla possibilità di crescere figli con relativa serenità sino al miraggio della pensione (derubata, anche in questo caso, dai babyboomer, i lavoratori più anziani, ovvero chi è andato o andrà in pensione con il vecchio sistema, con poca anzianità e assegni sproporzionati ai contributi). Non solo, ma non appena questo equilibrio “precario” si è spezzato a causa della crisi economica in cui siamo immersi, il tasso di disoccupazione è nuovamente esploso, come la nuvola di polvere che emerge da sotto il tappeto dove era stata raccolta: diversi centri di studio, infatti, affermano (e non da poco tempo) che il tasso di disoccupazione reale, non quello contabile che considera lavoratore pure chi lavora un’ora a settimana, è già tornato al 12%, numero già ben più coerente, se si pensa che in Spagna il tasso di disoccupazione nel corso di questa crisi è passato dal 9% al 25%.
La storia si ripete, in questo Paese maledetto dalla memoria corta. Riporto un pensiero di un personaggio piuttosto noto che risale al 1979, nove anni dopo lo Statuto dei Lavoratori:
Dal 1969 il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza lavoro. Ci siamo resi però conto che il sistema economico non sopporta variabili indipendenti… Siamo convinti che imporre alle aziende quote di manodopera eccedente sia una politica suicida. L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di questa politica suicida. Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare.
Sono parole di Luciano Lama, a capo della CGIL dal 1970 a 1986 (così riportate da Montanelli e Cervi ne La Storia d’Italia). Trent’anni dopo quelle parole continuano a rimanere inascoltate, mentre politica e parti sociali insistono nel far riecheggiare slogan che tengono in scarsa se non nulla considerazione le esigenze sia dei lavoratori precari che del mondo moderno.
Mondo che andrà avanti, inesorabile, mentre politica e parti sociali, mosse solo dalla volontà di mantenere potere e prestigio, ridurranno il Paese all’osso, com’è da diversi decenni a questa parte.
Photo credits | “Dmitri” Beljan
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