Dice, in sostanza, che un imprenditore non dovrebbe licenziare se ha manodopera in eccesso, neanche in momenti di crisi come quello attuale, in cui la produzione industriale è tornata sui livelli di venti anni fa.
Dunque, ipotizziamo un imprenditore che ha dieci operai, ma che in questo momento di crisi ne necessita solo otto. Se ha la “libertà” (che poi libertà non è, ma sorvoliamo) di licenziarne due, li licenzia, e lo Stato si fa carico di loro attraverso gli ammortizzatori sociali, in attesa che l’attività economica riprenda e che quindi il mercato richieda il lavoro dei due licenziati (e delle loro competenze, auspicabilmente aumentate da corsi di formazione, ma qui entriamo in un altro topic).
Se invece questa “libertà” non ce l’ha, e cioè è costretto a tenersi in fabbrica manodopera in eccesso, che non può permettersi, se la crisi dura anni (come quella attuale) molto probabilmente l’imprenditore finirà in perdita e chiuderà la baracca, e lo Stato (cioè quelli che un lavoro ancora ce l’hanno e pagano le tasse) dovrà sobbarcarsi il costo non di due, bensì di dieci licenziati (e relative famiglie). Se vietare il licenziamento protegge i posti di lavoro, allora presto vedremo asini con jet pack sfrecciare nei cieli.
Sia ben chiaro, non stiamo parlando dell’imprenditore che assume e licenzia precari fino a cadere nello schiavismo: parliamo di imprenditori normali, onesti, in buona fede, che licenziano se è proprio necessario per far sopravvivere l’azienda, e che lo fanno a malincuore, visto che ogni lavoratore che se ne va porta via con sé un bagaglio di know-how che potrebbe essere difficile rimpiazzare, e che si traduce con una perdita per l’impresa.
Mantenere sul mercato una rigidità come quella di sopra, in aggiunta, significa fare un favore agli schiavisti, di quelli che lucrano sulla pelle dei lavoratori. L’imprenditore onesto è costretto a chiudere, lo schiavista continua a tenere basso il costo della manodopera assumendo e licenziando precari come fossero chiavi inglesi.
Né risolvi il problema del precariato togliendo di mezzo la flessibilità: se costringi l’imprenditore ad assumere solo in modo rigido (quindi più costoso), questi o ha i soldi per farlo o non li ha, e in tempi come questi di solito è la seconda, per cui non assume, o se ne va in Polonia e Romania.
Fra i tanti miti e totem da sfatare sul mercato del lavoro (si veda anche questo articolo), c’è anche quello che l’imprenditore (aka il padrone) sia cattivo per definizione, e che quando licenzia è un mostro, anche se magari ne licenzia due per salvarne otto (ovviamente lo fa per salvare il proprio, di posto di lavoro, non per altruismo, per carità, ma cerchiamo di evitare il moralismo, ed essere invece pragmatici). La riforma del mercato del lavoro è argomento delicato, visto che è stato dimenticato per decenni, con riformicchie sbilenche fatte su o per aggirare uno Statuto dei Lavoratori creato per un’epoca che non esiste più.
Servirebbero meno ideologia, meno slogan e meno magliette idiote: capisco che si vogliano acchiappare elettori facendo populismo spicciolo, è il momento migliore dopotutto, ma qui c’è una generazione precaria che chiede un po’ di buonsenso, e che dopo quarant’anni di governi pieni solo di slogan, desidererebbe un po’ di fatti.
Passino gli opinionisti tuttologi “buongiorno, buonasera”, ma i decision maker un corso d’aggiornamento potrebbero farlo (tipo sindacalisti e parlamentari, magari dopo un licenziamento. La giusta causa ce l’avremmo pure: è la miseria che sopportiamo da una ventina d’anni; ma licenziarli è cosa alquanto difficile, visto che le caste si autoalimentano a vicenda).