Domenica scorsa il Parlamento greco ha approvato il pacchetto di misure di austerity richiesto dalla comunità internazionale (in particolare la Troika composta da Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) al fine di ottenere una tranche di prestiti che permetteranno al Paese di rimandare (per ora) il fallimento.
Il voto si è svolto in un clima da guerriglia, con Atene data alle fiamme, proprio mentre in Italia l’austerity votata dall’esecutivo di Papademos veniva definita una “macelleria sociale”. La definizione, tuttavia, non è adeguata al caso greco eppure anche in Italia non sono mancate manifestazioni di solidarietà al popolo ellenico, fino a ricordare la solita sciocchezza del complotto internazionale dei banchieri sulla pelle della gente, di cui la Grecia è solo un primo esperimento, poi seguiranno altri Paesi, fra cui l’Italia.
Le cose, però, stanno diversamente rispetto alla patina da clima elettorale. Le difficoltà dei PIIGS non sono causate da un complotto ma da problemi che hanno radici in molti Parlamenti nazionali. La Grecia è certo un caso particolare e se le difficoltà di vari Paesi sono dovute a una congiuntura difficile e a una classe politica inetta (si veda l’Italia), Atene ha infatti avuto il coraggio criminale di osare di più: il suo sistema era già marcio fino al midollo quando l’economia ha cominciato a peggiorare nel 2008. Fino a quell’anno, infatti, la Grecia ha goduto di una crescita economica tanto poderosa quanto basata sul nulla: la politica, a fini elettorali, s’è messa a creare posti di lavoro inutili, creando un gigantesco parassitismo improduttivo. L’esempio più lampante è nel caso del fisco, una macchina burocratica diventata enorme e ingestibile che – di conseguenza – favoriva la corruzione al fine di evadere, in modo che i governi hanno dovuto ricorrere a un condono fiscale in media ogni tre anni negli ultimi trenta.
I cittadini greci erano evidentemente contenti del bengodi: lo Stato pagava stipendi superflui mentre i cittadini (chi poteva, ovviamente: il 75% degli autonomi greci era “esentato” dalle imposte) non pagavano le tasse in attesa dell’inevitabile colpo di spugna. L’economia cresceva, dando l’illusione del ritorno all’età dell’oro. Sciocchezze, ovviamente: l’economia sommersa era un terzo del PIL (in Italia è un quinto), e ogni anno 30 miliardi di euro venivano sottratti al Tesoro di Atene, che intanto, però, occupava l’80% delle proprie spese in stipendi e pensioni. Il settore pubblico impiegava 700 mila persone, di cui 25 mila assunte negli ultimi due anni, nel bel mezzo della crisi, segno che la politica greca, in modo bipartisan, non aveva ancora capito in che guaio s’era cacciata.
Il divertimento prima o poi doveva finire: se ne accorsero i politici greci, più di dieci anni fa, quando si trattava di entrare nell’euro. Se spendi tanto e non incassi niente alla fine tutto implode. E quindi se ne vennero fuori con un’idea geniale: falsificare i conti pubblici, chiedendo aiuto alle grandi banche internazionali, che diventarono complici, ma non principali imputati del disastro. “Far tornare” i conti pubblici andava di moda, prima dell’euro: lo fecero anche Prodi e Ciampi nel 1996. Ma la differenza fra i due casi è abissale: Prodi e Ciampi non erano criminali, quando “il trucco” fosse stato svelato, i conti pubblici sarebbero stati in ordine, come in effetti poi accadde. I greci, invece, effettuarono una vera e propria truffa “solo” per coprire la voragine ovvero per non distruggere l’immenso apparato clientelare dello Stato su cui si reggeva l’economia nazionale.
In questo gioco tafazziano, i cittadini greci sono colpevoli quanto i loro rappresentanti, visto che negli ultimi tre lustri si sono alternate al potere sempre le stesse personalità. Da dieci anni l’Europa, attraverso Eurostat, avvisava la catastrofe imminente. Atene rispondeva “vabbuò”, all’italiana. Da dieci anni i greci dovevano protestare contro la politica corrotta. Non lo hanno fatto, perché le cose stavano bene così. Era il bengodi.
Il risultato di questo massacro del buonsenso è oggi un Paese sull’orlo della bancarotta, e le proteste dei cittadini greci vanno nella direzione del baratro. Purtroppo per loro, c’è un grosso problema: la Grecia non ha il becco di un quattrino, e la sua economia, a parte quella statale, semplicemente non esiste. Mezzo mondo è disposto a prestar loro denaro, denaro pubblico, denaro dei cittadini, italiani compresi. Ma servono garanzie: i soldi che il contribuente italiano presta alla Grecia verranno utilizzati per pagare lo stipendio di un medico o di un insegnante che fanno il proprio mestiere, o finirà nelle tasche di uno dei numerosissimi “parassiti statali”? Gli autonomi cominceranno a pagare le tasse o sarà il cittadino italiano a pagare la manutenzione delle strade sulle quali l’autonomo nullatenente girerà in Lamborghini?
Per questi motivi i greci non possono avere solidarietà e compassione: chi è causa del suo male, pianga se stesso. E in tutto questo le banche c’entrano poco e niente, visto che sono dispostissime a perdere oltre la metà dei propri prestiti ad Atene nel famoso “haircut”, la ristrutturazione del debito. Il mondo intero, a cominciare dall’Europa, sia pure con vistosissimi errori, sta cercando di aiutare la Grecia, ma è necessario che la Grecia aiuti se stessa, cominciando a capire una piccola, semplice regola: non solo il bengodi è finito, ma bisogna pagare il conto degli ultimi anni di insensatezze, per non dire crimini.
L’alternativa è il default e l’uscita dall’euro, soluzione che viene chiesta a gran voce dai soliti economisti “alternativi”, sul solito esempio dell’Argentina. L’errore è lo stesso che ha portato la Grecia al collasso: badare solo alla crescita e non alla sua efficienza e sostenibilità. L’Argentina, come la Grecia, ha avuto in questi anni una crescita poderosa, ma quasi la metà della popolazione è povera e un’inflazione galoppante continua a divorare gli stipendi. E non è questo il destino che attende la Grecia in caso di default, ma ben peggiore: a differenza dell’Argentina, che è piena di risorse naturali, la Grecia ha solo Partenone, olive e fichi secchi.
Stesso discorso per l’uscita dall’euro: come ben spiegato in modo efficace su NoisefromAmerika, davvero si pensa che la gente non si accorgerà in caso di ritorno alla dracma (o alla lira) di avere in mano i soldi del Monopoli? Se la svalutazione cura tutti i mali, perché lo Zimbabwe non si è ancora comprato la Cina?
Occorre molta serietà e molta meno demagogia. È verissimo che l’Europa vuole salvare la Grecia in primo luogo per salvare se stessa, ma ciò non può significare staccare assegni in bianco. Ed è pure vero che le cose stanno andando un po’ meno peggio di prima e le ottime manovre di Mario Draghi alla BCE stanno creando un cordone sanitario per evitare che la febbre greca contagi gli altri Paesi (il Portogallo è il prossimo sulla lista), ma l’era dei pasti gratis di cui il popolo greco ha usufruito negli anni deve finire. Questa è l’ultima chance per capire i veri termini della questione, altrimenti tutta la Grecia diventerà un’enorme Santorini, isola distrutta dal suo stesso vulcano.
E sarà un monito per altri Paesi in condizioni simili: la crisi non è ancora alle spalle e l’Italia – pur essendo messa decisamente meglio (e almeno parte della colpa risiede oltre le Alpi) – soffre di molte delle malattie d’oltre-Ionio. La cura Monti non sarà eterna, se dopo di lui la politica tornerà a dare il peggio di sé.
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