Una lettrice echo boomer, rosemiryam, mi segnala questo articolo di un professore de La Sapienza che, pur dicendo un bel pacco di cose giuste, arriva (per motivi che capirete a fine articolo) a una conclusione completamente sganciata dalla realtà, poiché si basa su una premessa assolutamente cretina, e cioè che le riforme pensionistiche degli anni passati hanno funzionato, poiché dal 1998 in poi la differenza fra contributi versati dai lavoratori e le pensioni erogate ai pensionati è positiva, sottintendendo che sarà così anche in futuro. Un’evidente scemenza.
Intanto vediamo come si calcola (per sommi capi: ci sarebbe da fare un discorso infinito sul sistema previdenziale e assistenziale e i loro rapporti, ma evito di uccidervi) questa differenza; è molto semplice. Siano:
- a il contributo medio versato dai lavoratori;
- b la pensione media erogata (1084 euro per l’INPS)
- x il numero di lavoratori
- y il numero di pensionati
La differenza si ricava facilmente: a*x – b*y. Consideriamo un sistema in cui il rapporto fra pensionati e lavoratori è o,7 a 1, ovvero supponiamo che vi siano 70 pensionati e 100 lavoratori, come è oggi in Italia (in verità dovremmo essere a 0,74 [17 milioni di pensionati su 23 milioni di lavoratori], ma siamo buoni). A pareggio, cioè per a*x – b*y = 0 ricaviamo che il contributo medio è 758,8.
Come ben sappiamo, in futuro molte persone andranno in pensione (oggi gli over 65 sono un quinto degli italiani [ovvero ci sono 5 milioni di babypensionati] e la tendenza all’invecchiamento è ben nota), ma queste persone non saranno “sostituite” da altrettanti giovani, sicché il rapporto fra pensionati (e non lavoratori) e lavoratori arriverà a poco meno di 1 a 1, ovvero in futuro, nel nostro sistema, ci saranno, per esempio, 95 pensionati e 100 lavoratori. Se lasciamo fermi pensione media e contributo medio, il saldo migliorerà o peggiorerà? Ovvero, se prima il saldo era zero, sarà adesso positivo o negativo? La risposta è ovvia: diventa negativo, e non di poco.
Ceteris paribus, il saldo oggi positivo è destinato a deteriorarsi. È necessario agire su una o più delle variabili sopracitate. Ed è qui che il calamaro diventa sugoso.
Quali variabili sono state toccate nel corso degli anni?
Nel corso degli anni una variabile si è mossa più velocemente delle altre, contribuendo al saldo positivo di cui parla il professore e questa variabile sono i contributi versati dai lavoratori. L’aliquota contributiva è stata continuamente ritoccata al rialzo, ben al di sopra dei limiti stabiliti nel leggendario 1998: per esempio secondo la legge del 1998 l’aliquota per artigiani e commercianti doveva arrivare al massimo al 19%, ma il governo Prodi la portò al 20% dal primo gennaio 2008 (e i lavoratori dipendenti pagano ben di più, si sfiora il 30%); lo stesso ha fatto pure il centrodestra, per esempio nell’ultima legge di stabilità tremontiana (di appena un mese fa) è stato previsto un incremento del contributo alla gestione separata dell’INPS dell’1% a partire dal primo gennaio prossimo.
Facile avere un saldo positivo così, tartassando il lavoratori. Che faremo nei prossimi anni, quando ci saranno troppi pensionati rispetto ai lavoratori? Aumenteremo le aliquote fino al 30-40%? In fondo lo sappiamo tutti, i lavoratori non hanno problemi di soldi: i ristoranti sono pieni. Precario, rinuncia a una delle tue quotidiane aragoste, cosa ti costa? Fatti una scatoletta di tonno, una volta tanto, che diamine!
Chiosa finale: tutto questo casino babilonese è scoppiato perché il governo Monti ha deciso l’inevitabile, ovvero che bisogna toccare qualche altra delle variabili precedenti, ovvero quelle variabili che i sindacati hanno strenuamente difeso per quindici anni e continuano a difendere, nonostante siano evidentemente insostenibili, cioè pensione erogata e numero dei pensionati (aspettando una mossa nel senso della crescita, cioè creazione di posti di lavoro, in modo da smuovere la variabile più bella, ma in calo da anni per motivi che dovreste ben conoscere).
Prima variabile: la pensione erogata.
Il governo ha innanzitutto previsto il blocco dell’indicizzazione delle pensioni superiori a due volte la minima, cioè da 936 in su, ovvero poco sotto la pensione media, sicché le pensioni più basse manterranno intatto il potere d’acquisto, mentre le più grasse dimagriranno. Più equità intragenerazionale di così si muore (vabbé, si può sempre fare di meglio, ma qui si stanno sparando cassiate alla cieca).
Seconda variabile: il numero dei pensionati, che tocca più da vicino l’equità intergenerazionale
Il governo ha toccato l’età pensionabile, vero tasto dolente, in modo da diminuire il numero dei pensionati adeguando l’uscita dal lavoro all’aumento della speranza di vita, cosa che parrebbe normale, visto che si vive di più e si invecchia meglio. Mi spiace per i nati nel 1952, se non erro, che faranno un megasalto rispetto a quelli nati un anno prima (non che quelli nati prima saranno esentati, ci mancherebbe). Questo aumento si poteva fare gradualmente nel 1994 e dissero di no; lo si poteva ancora fare gradualmente nei primi anni 2000 e ancora una volta han detto niet. Cofferati, per la riforma Dini, fu linciato verbalmente da chi voleva andare in pensione con trent’anni di contributi invece dei 40 previsti da Dini inizialmente. L’ebbero vinta, o almeno pareggiata: in pensione a 35 anni (di lavoro, beninteso).
Nel 2004 si nota che il sistema non funziona: nuovi strali, riforma Maroni poi annacquata dal governo Prodi.
Nel 2011 il sistema non funziona ancora.
Caro 1952, avresti dovuto protestare PER una riforma delle pensioni già dal 1994, almeno per togliere di mezzo quei 5 milioni di babypensionati, che avrebbero liberato risorse per pagare la tua pensione. E invece no: sei causa del tuo mal, piangi te stesso. Fino a ieri speravi di andare in pensione a 60 anni nel 2013? Adesso ci andrai nel 2018. Se avessi cercato una riforma decente e per tempo invece di arroccarti coi vecchi, magari in pensione ci saresti andato nel 2015, a 62 anni, non a 65.
Caro 1987 (decennio più decennio meno), se non vuoi fare la fine di classe 1952, incazzati, indignati, non ti fidare dei sindacati, perché lavorano per i pensionati e contro di te, e chiedi una riforma delle pensioni che sia equa per te, non per i vecchi che hanno campato a debito fino ad adesso e che dovevano chiederla per sé decenni indietro, e adesso stanno con il mandolino in mano: questi, fra cui il professore, classe 1950, per cercare di andare in pensione a 63 anni invece che a 65 faranno di tutto per far andare te e me in pensione a 75 invece che a 70. (E con una pensione da fame, come ben potete immaginare)
Ammesso che per allora esisterà ancora un sistema pensionistico, se questo è l’andazzo ne dubito assai.
Aggiunta: mentre scrivevo sono uscite fuori le notizie delle serrate dei farmacisti, delle proteste dei notai, dei blocchi del traffico dei tassinari, ovvero di tutti i gattopardi italiani che vogliono resistere al taglio delle rendite di cui godono. Delle due l’una: o tutto questo gattopardismo viene soffocato da un movimento di protesta contro le caste (ché quella politica non è mica l’unica) oppure Monti si dimetta e lasci questo Paese al suo destino: la morte.
(Titolo dell’articolo modificato successivamente perché, in fondo, del professore parlo poco e niente)