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Due economisti (e l’economia in generale)

(La parte più importante dell’articolo è la seconda)

Il primo è un economista che ho visto di persona una sola volta, mentre io uscivo dalla metro in piazzale Lotto a Milano e lui vi entrava: era Oscar Giannino, non ancora conosciuto al pubblico come oggi, ma comunque una persona normale. Più o meno era vestito come nella foto a destra, solo che sorrideva. Ieri è stato oggetto di un lancio di uova da parte di personaggi che gli urlavano “fascista” e che quindi suppongo si ritenessero di sinistra: volevano infatti impedirgli di parlare ad un incontro organizzato da Azione Giovani. Ora se questi chiamano Giannino fascista, vuol dire che ci troviamo di fronte, in prima analisi, ad asini siderali. Non concordo con Giannino circa i suoi eroi, i Chicago Boys e Reagan, come ben sapete, ma è un grande pensatore, indipendente, liberale e, per quanto non mi piaccia in modo assoluto, liberista. Se contiamo che il fascismo è pensiero unico, liberticida e dirigista, appare immediatamente evidente che la distanza che lo separa dai fascisti è enorme. Ma non basta.

Il fascismo non è solo olio di ricino in bocca e manganello dall’altra parte: fascismo è qualunque limitazione ingiusta della libertà, in particolare della libertà di espressione. Era fascista anche Stalin, il fascismo può essere (ed è) anche una pericolosa malattia della sinistra. E tirare uova e pomodori a uno con il quale non si è d’accordo al fine di non farlo parlare, cari ragazzi, è fascismo. Dicevo ieri, ben prima di sapere la notizia di questa oscena aggressione, che la destra non si libererà presto del berlusconismo, e così non ci riuscirà presto la sinistra. E il berlusconismo, in prima e rozza analisi, è un fascismo, pecoreccio, ma fascismo. Quei tizi di sinistra somigliano tanto a La Russa da giovane, e magari quei tizi diventeranno quadri e dirigenti dei partiti della sinistra in futuro: il pericolo per questo Paese è enorme, perché questa gentaglia rumorosa è tremendamente ignorante e fascista. E studiano in una delle grandi culle della politica italiana, la Statale di Milano. Teniamo alta la guardia contro questi estremisti, che non stanno solo a destra: il fascismo è mutevole e va combattuto in tutte le sue forme.

Dell’altro economista non farò nome per non fargli pubblicità, ma del quale mi trovo costretto a parlare perché più persone nelle ultime ore mi hanno chiesto un parere a riguardo.

Servono due premesse che sono più lunghe delle poche parole che merita il secondo, ma sono indispensabili per capire il mio giudizio.

Premessa numero uno: io sono persona che per carattere rifugge i complimenti. Quando con tocco, toga e diploma in mano andai a salutare i miei genitori che assistevano in platea, vidi mio padre visibilmente commosso, non ebbi esitazioni nel chiedermi cosa avessi fatto di straordinario da meritare una simile commozione (ma la lacrima facile è genetica, la faceva pure suo padre e capita pure a me): una laurea, dopotutto, è un inizio, non una fine. Quando qualcuno mi fa i complimenti per il blog, per un articolo, per un discorso, per un tweet, io ringrazio, ma penso di aver fatto solo il mio dovere, e neanche chissà quale grande dovere, almeno dal mio punto di vista. Addirittura, quando qualcosa che ho scritto è particolarmente apprezzato e arrivano lodi sperticata, il mio carattere mi fa pensare male.

Premessa numero due: l’economia non è una scienza astratta come la matematica, per cui non è esatta. Parla di miliardi di persone in vario modo interconnesse di cui i mercati sono solo un termometro (perché i mercati siamo noi, caro Santoro, ma ne parliamo in un altro articolo): l’impossibilità di controllare esattamente i mercati (sia dai governi che dagli speculatori inesistenti) è fortemente connessa con l’impossibilità di controllare esattamente la gente (e da qui il fallimento delle economie centralizzate e pianificate). Quando si mette in moto una certa riforma, è impossibile prevederne esattamente gli effetti. Il mercato del lavoro finlandese non può essere brutalmente trapiantato in Uruguay; il sistema economico del nord Italia non può essere replicato esattamente e istantaneamente nel sud Italia (questo è il motivo delle cattedrali nel deserto, questo è uno dei pesi che gravavano su Termini Imerese); è per questo motivo che la mafia (nella fattispecie la’ndrangheta soprattutto) si muove diversamente quando è in Calabria, a Milano o in Germania. L’economia è un immenso, infinito prova e correggi, ed è per questo che io credo fermamente che l’economia debba essere lasciata alla libera iniziativa della gente, perché è la gente che sa cosa è meglio per sé stessa, mentre lo Stato deve riservarsi il ruolo di arbitro e regolatore degli eccessi perché la libertà non può e non deve trasformarsi in giungla dove vince il più forte, poiché essa divora sé stessa. In altre parole il mercato, lasciato a sé stesso, crea ineguaglianze, le quali creano (prima che ingiustizie), delle inefficienze.

Questo problema degli eccessi era già noto ad Adam Smith, che contrariamente alla vulgata di certa gentaglia, tipo i fascisti ignoranti di cui sopra, alla povera gente, i lavoratori, specie i propri compatrioti scozzesi, ci teneva. Leggete, per esempio, la conclusione del capitolo 11 del libro I de La Ricchezza delle Nazioni, si parla di «an order of men […] who have generally an interest to deceive and even to oppress the public, and who accordingly have, upon many occasions, both deceived and oppressed it»; oppure nel capitolo 8: «No society can surely be flourishing and happy, of which the far greater part of the members are poor and miserable.» Geez, ma questo è Marx!

L’errore stava nella soluzione: a risolvere inefficienze e ingiustizie doveva essere il mercato stesso, cioè gli imprenditori, cioè la mano invisibile. Una scemenza, e Smith se ne sarebbe accorto perché era uomo molto pratico (come un economista deve essere); però Smith non se ne accorse e non poté correggersi: era ormai vecchio e preda di lodi sperticate (il primo ministro inglese Pitt, quello giovane, e uno dei più grandi, non finiva mai di ricordargli che “qui siamo tutti tuoi discepoli”), e questo non aiuta a correggersi. Un altro economista inglese, tempo dopo, farà tesoro di quella lezione, e dirà: “Quando la realtà cambia, io cambio le mie opinioni. Lei cosa fa, signore?”. Quel signore era Keynes, ed è ancora oggi uno dei più grandi.

Date queste premesse immaginate come mi sia sentito quando queste persone mi hanno chiesto un’opinione su un tizio che dichiara essere “il più autorevole economista fuori dal coro”. Analizziamo questa affermazione:

Il risultato lo leggo nei suoi articoli. Accanto a poche questioni corrette, ce ne sono altre che non stanno in piedi per via di premesse che non quadrano, altre che sono solo fesserie, altre ancora sono semplicemente populismo spicciolo che fa tanto Beppe Grillo o Nichi Vendola (ma senza la verve del primo e la rimbombante soavità del secondo).

Quando leggete di economisti, me compreso, non prendete tutto per oro colato, usate la vostra testa e riflettete. Quando però leggete di economisti che si autolodano e si credono gesucristi, riflettete ancora di più: tutti gli economisti possono sbagliare, ma chi si presenta come questo economista qui è meno capace di riconoscere i propri errori, e per questo rischia di sbagliare più spesso. Perseverando, magari.

L’autorevolezza di un economista si riconosce solo quando finisce nella tomba. E spesso solo temporaneamente: perché la società cambia e così cambia l’economia (sia pure a velocità diverse).

(Non so di chi sia la foto, se possibile fatemelo sapere, ma ho creduto essere necessario usarla contravvenendo alle mie stesse regole per dimostrare in modo visivo e crudo come siamo caduti in basso)

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