L’agenzia di rating Standard and Poor’s nella notte di ieri ha annunciato di avere abbassato il rating dell’Italia da A+ ad A. Il cambio di giudizio non è stato una sorpresa: l’agenzia aveva messo l’Italia sotto osservazione con implicazioni negative già a maggio, ovvero aveva avvisato il nostro Paese che un downgrade sarebbe arrivato entro tre mesi. S&P’s, come Moody’s pochi giorni fa, aveva poi deciso di estendere l’analisi di un mese ulteriore a fronte delle manovre varate dall’Italia nel frattempo, e al termine della scadenza ha deciso per il taglio del rating.
Le motivazioni che hanno portato al downgrade non sono ignote ai lettori di Diritto di Critica, visto che li abbiamo anticipati su queste pagine già il 5 settembre scorso. Il primo motivo è la scarsa crescita: l’Italia proviene da un decennio di crescita quasi zero e le manovre finanziarie, di importo faraonico, aumenteranno le tasse senza tagliare il peso della macchina statale. Meno crescita significa meno reddito, e come ogni buon padre di famiglia sa, se il reddito non cresce quanto i debiti, pagare questi ultimi diventa più difficile. Giusto ieri il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato di avere tagliato le stime di crescita dell’Italia da +1,0% a +0,6% per il 2011 e da +1,3% a +0,3% per il 2012. Con questi ritmi e con un rendimento dei titoli di Stato che non accenna a calare, il default dell’Italia, che al momento non è prossimo, potrebbe diventarlo.
Che lo diventi o no dipenderà da quale sarà la risposta della politica, e questo ci porta al secondo motivo che ha portato S&P’s a declassare l’Italia. Ciò è da ricollegarsi alla debolezza di una maggioranza solida solo a parole e solo quando viene posta la questione di fiducia, ovvero quando si pone i parlamentari della maggioranza davanti alla scelta: o mangi questa schifosa (per le classi media e bassa, chiaramente) minestra o butti i privilegi dalla finestra. Quando la questione non viene posta, l’anarchia è totale: ieri il Governo alla Camera è stato battuto per ben cinque volte su un disegno di legge, per poi capitolare affidandosi completamente all’aula, dimostrando di non riuscire a “reggere il timone”, che è l’etimologia stessa della parola “governare”. Come si può credere che una maggioranza del genere possa affrontare la crisi più grave degli ultimi decenni? S&P’s non ci crede, e così i mercati.
Per questi motivi, per nulla ignoti a chi decide di informarsi, il giudizio di S&P’s non appare per niente una sorpresa, tant’è che i mercati hanno mostrato ben poco movimento ribassista. Gli operatori, infatti, non aspettano le agenzie di rating, ma fanno, per così dire, i compiti a casa da soli, e sono andati avanti per la propria strada, al rialzo, per motivi che ignorano totalmente le vicende italiane (per la cronaca, alcuni motivi sono, ad esempio, il piano Obama annunciato lunedì, riunione del FOMC avvenuta martedì, più vari motivi tecnici).
La situazione resta critica. Il debito continua a volare, la crescita ad annaspare, il governo a non governare. Non stupisce quindi che S&P’s, nell’emettere il proprio giudizio, abbia ribadito il proprio outlook negativo, ovvero è possibile che l’Italia venga ulteriormente declassata nel prossimo futuro: si aspetta che le previsioni sul Pil si avverino prima di fare il prossimo downgrade. Tutto questo nell’attesa che il mese prossimo si pronunci l’altra big delle agenzie di rating, Moody’s, in modo molto probabilmente negativo: con il taglio di oggi, infatti, il rating di Moody’s sull’Italia è di ben tre notch superiore a quello di S&P’s.
La situazione è critica, ma non irrecuperabile. L’Italia deve scegliere quale strada intraprendere. Una è quella spagnola, che vede come primo passo le dimissioni del premier (secondo Nouriel Roubini l’annuncio delle dimissioni di Berlusconi farebbe crollare lo spread fra Btp e Bund di 50-100 punti, con grande sollievo per le nostre tasche). L’altra è quella della già fallita Grecia: la storia si sta ripetendo, che il nostro governo lo voglia o meno, e i mercati già ci vedono falliti entro il 2016.
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