Cervelli in fuga e innovazione italiana al palo. L’incapacità cronica del nostro Paese nel sostenere la ricerca scientifica e tecnologica è storia vecchia di quarant’anni, ma ci impoverisce ancora oggi. L’Italia del dopoguerra ha vissuto il miracolo economico, una grande crescita con conseguente aumento della ricchezza degli italiani: una crescita simile fu tipica anche degli altri “sconfitti” (Germania e Giappone), ma poi, mentre gli altri Paesi viaggiavano a gran velocità, l’Italia ha cominciato ad arrancare. Perché?
La risposta risiede nelle storture che l’economia italiana soffrì dagli anni Sessanta in poi e può essere esemplificata da una domanda apparentemente bizzarra: perché gli italiani producono lavatrici, ma non detersivi per lavatrici?
Come ogni uomo e donna, anche un Paese si trova talvolta ad affrontare dei trade off, e uno di questi riguarda il come sostenere la crescita economica. Essa può essere sostenuta principalmente in due modi: con il lavoro (come fa la Cina) o con l’innovazione tecnologica (Giappone).
L’Italia del dopoguerra aveva enormi riserve di manodopera, dunque fu ovvio puntare sul lavoro. Arrivati ad un certo punto, però, non c’è più gente da spostare dall’agricoltura all’industria e ai servizi, ovvero la riserva di manodopera finisce; inoltre aumentando il tenore di vita degli strati più bassi della popolazione, aumenta anche l’istruzione e con essa la forza di rivendicare salari più alti (come avvenne nel Sessantotto). Per questo motivo non è possibile basare la crescita nel lungo periodo solo sulla forza lavoro: non nascono abbastanza operai e impiegati, e anzi progredendo si “producono” sempre meno figli, ma più istruiti.
Per un Paese diventa pertanto fondamentale puntare sull’innovazione tecnologica, cioè sulla ricerca. Negli Stati Uniti, economia già industrializzata, non vi erano riserve di manodopera, dunque si puntò sulla ricerca, e sappiamo bene quante innovazioni negli ultimi decenni sono nate negli States. E sappiamo anche che gli USA sono la prima potenza economica del mondo.
In Italia questo non avvenne, da un lato perché lo Stato non stimolò la ricerca, dall’altro perché gli imprenditori italiani decisero di non salire sui “treni” allora in partenza.
Negli anni Sessanta, infatti, il centrosinistra nazionalizzò diverse imprese (in particolare nel settore elettrico), come già avvenuto all’inizio del secolo con le ferrovie. Ma mentre a inizio secolo gli imprenditori “nazionalizzati” investirono i loro capitali in nuove attività, negli anni Sessanta gli imprenditori preferirono trasferire clandestinamente i capitali all’estero (sette miliardi di dollari dell’epoca), invece che investire in attività ad alto tasso tecnologico. Uno di questi era la chimica, che significa, fra l’altro, detersivi.
Ecco la risposta alla domanda posta in precedenza: negli anni Sessanta gli imprenditori italiani non capirono che se ci sono le lavatrici, devono esserci anche i detersivi. Il Belpaese fu presto invaso da marche straniere oggi ben note a tutti (le americane Ace e Dash, le tedesche Dixan e Perlana, e tutte le altre). C’era un’azienda italiana di detersivi, la Mira Lanza, produttrice dell’Ava di Calimero, ma per scelte industriali troppo orientate al breve periodo o semplicemente sbagliate (puntò sul bucato a mano, non sulle lavatrici) entrerà in crisi e negli anni Ottanta terminerà nelle mani anglo-tedesche di RB (Sole, Lip, Finish, Calgon). Questo piccolo esempio ben spiega come scelte lontane nel passato (in questo caso su ricerca e innovazione) hanno avuto effetti sul futuro (ovvero sul presente) dell’Italia, tagliata fuori oggi da un mercato proficuo per scelte sbagliate compiute negli anni Settanta.
Nel corso dei decenni successivi altri treni dell’innovazione partiranno, non ultimo quello dei computer, ma l’Italia sarà sempre costretta a inseguire o a implodere dopo una grande partenza, come è avvenuto con Olivetti. Una classe politica miope, scialacquona e ladra negli anni Ottanta si affiancherà ad una classe imprenditoriale inetta e incapace di ribellarsi al sistema politico corrotto, creando un gap sempre maggiore con le altre potenze del mondo, minando alla base la crescita italiana di lungo periodo.
Per crescere nel lungo periodo, dicono le moderne teorie economiche (neanche tanto moderne, il modello di Solow è del 1956), serve il progresso tecnico, ovvero serve la ricerca. Senza, nel lungo periodo si cresce solo in base alla crescita della popolazione (ovvero di quanti nuovi lavoratori entrano sul mercato del lavoro). Questo spiega in parte come mai segniamo con regolarità tassi di crescita del PIL più bassi degli altri Paesi: la popolazione cresce poco (grazie agli immigrati), il Paese non innova e la crescita economica arranca.
Tralasciare la ricerca, tagliando ad ogni finanziaria i fondi ad essa destinati (gli imprenditori non vogliono o non possono guidare l’innovazione perché o troppo piccoli o troppo indebitati per fare ricerca di base, che va fatta in università), significa far affondare il Paese nei prossimi anni. Ricerca non significa soltanto cura delle malattie, detersivi che lavano più bianco o farsi belli con l’iPad: ricerca significa crescita, ovvero miglioramento delle condizioni di vita per tutti, come è avvenuto per i nostri nonni e per i nostri padri. E così deve essere anche per i figli e per i nipoti.
O almeno dovrebbe.
Photo credits | Bundesarchive
Se l’articolo ti è piaciuto, puoi incoraggiarmi a scrivere ancora con una donazione, anche piccolissima. Grazie mille in ogni caso per essere arrivato fin quaggiù! Dona con Paypal oppure con Bitcoin (3HwQa8da3UAkidJJsLRfWNTDSncvMHbZt9).
2 Comments
Comments are closed.