Giusto due riflessioni scritte davvero di getto per dire perché, secondo la mia modesta opinione, il comunismo è bello ma impossibile, e perché il capitalismo funziona ma non sempre.
Si parte da un pensiero che pare ovvio, ma non lo è. Le economie che prendono decisioni giuste diventano economie ricche. Le economie che prendono decisioni sbagliate diventano economie povere.
I valori alla base del comunismo sono certamente molto belli:
- Tutti gli uomini sono uguali;
- Ognuno dà quel che può;
- Ognuno riceve ciò di cui ha bisogno.
Grazie a questi valori, il marxismo-leninismo è diventata una grande macchina per la raccolta del consenso. Il problema è che non può funzionare.
Tutte le economie (che siano superpotenze, imprese o singole persone) devono prendere decisioni riguardante allocazione e produzione. Le persone devono decidere, ad esempio, come usare il proprio tempo (quanto lavorare, quanto fare altro). Gli stati devono decidere dove devono andare i soldi, in questo o in quel progetto, in questo o in quel settore dell’economia.
Le economie comuniste devono essere necessariamente centraliste (e storicamente lo sono), poiché, al contrario, può accadere che individui della stessa comunità finiscano per dare meno di quel che possono o ricevere meno di quanto hanno bisogno (o viceversa). Basti pensare alle differenze che c’erano fra i vari Paesi comunisti. Insomma, ci deve essere qualcuno che decide in che modo tutti gli uomini sono uguali e agire di conseguenza.
Il problema del centralismo è che troppe informazioni e troppe alternative finiscono nelle mani dei pianificatori. Più grande è il progetto, maggiori saranno le informazioni necessarie. Da questo deriva il problema della qualità: se le informazioni sono troppe, diventa difficile discernere fra informazioni di qualità alta e bassa. Ci sono poi problemi politici e pregiudizi personali: ai pianificatori un certo progetto potrebbe non piacere per motivi che non sono razionali. Si passa quindi all’implementazione: un piano razionale ed efficiente, ad esempio, potrebbe essere scartato perché il popolo e/o i pianificatori stessi (se alla ricerca del consenso) lo ritengono un peggioramento rispetto alla situazione attuale. Infine, nel caso una politica fallisca, i pianificatori daranno la colpa agli “implementatori” e viceversa. Questa situazione può essere risolta grazie alle informazioni, ma se le informazioni sono troppe diventerà difficile non solo trovare i responsabili, ma anche decidere come correggere la nuova politica. E si ritorna all’inizio del paragrafo. Larry Harris ha scritto nel suo “must read” Trading & Exchanges (vado a memoria) che «comunismo e comunicazione condividono la medesima radice “comune”, che indica un gruppo che condivide qualcosa. Ironicamente, però, è stata proprio l’incapacità del comunismo nel comunicare in modo adeguato le informazioni necessarie per far funzionare l’economia». Giusto come nota di colore, Gordon Gekko, in Wall Street, ricorda che «The most valuable commodity I know of, is information».
Questo è l’errore del comunismo, errore che, come sappiamo, ha portato alla dissoluzione di una bella utopia.
Il capitalismo risolve il problema in altro modo: invece di un’unica autorità che decide il destino di tutti, le decisioni su come allocare le risorse e sul cosa produrre vengono prese a livelli inferiori, più piccoli, in modo tale che le informazioni necessarie per prendere decisioni, per correggerle e per punire chi sbaglia siano minori (riuscendo quindi a distinguere le buone informazioni dalle cattive). Interviene poi il mercato che, con i suoi prezzi, è in grado di riassumere in modo efficace tutte le informazioni.
Questo ovviamente in teoria: a differenza del comunismo, però, che pure funziona bene in teoria, l’errore, o meglio, gli errori sono interni al capitalismo stesso.
Il mercato non si autoregola in modo efficace, e lo sappiamo tutti. C’è bisogno di qualcuno che faccia la guardia, e quel qualcuno, ovviamente, sono i governi (che ricomprende le autorità indipendenti). Ogni governo, a seconda del suo colore politico, può avere priorità diverse e per questo intervenire in economia in modi estremamente variegati. Poniamo un caso fantasioso: fra qualche (anno, decennio, secolo, fate voi) verranno introdotte auto che fluttuano nell’aria a prezzi simili rispetto alle nostre quattro ruote. Ipotizziamo che la FIAT non abbia scommesso su questa rivoluzione: i prezzi delle azioni della FIAT crollano perché nessuno vuole le sue auto. Il governo, nel tentativo di salvare i posti di lavoro nel brevissimo termine, taglia le tasse alla FIAT la quale può vendere le sue vecchie auto a prezzi più bassi, riuscendo a difendersi. Le azioni risalgono, ma il mercato è distorto, e il taglio delle tasse crea problemi sull’intera collettività (ad esempio si aumentano le tasse, magari agli stessi lavoratori cui si è salvato il posto, oppure esplode il debito pubblico).
Usciamo dalla metafora e rientriamo nella realtà: fino al 2004 Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve, aveva in mano un intero Paese (ricordo una bella vignetta di Larry Wright sul mio manuale di macroeconomia che ben disegnava il potere del Reverendo Greenspan che con una sola parola poteva cambiare il corso del mondo), e con le sue manovre (principalmente inondando il mercato di denaro) ha dato agli Stati Uniti un periodo di grande prosperità. Purtroppo, però, quel fiume di denaro, se da un lato ha creato ricchezza nel breve termine, ha creato la crisi finanziaria che stiamo vivendo (infatti oggi siamo nel medio-lungo periodo di ieri).
Ci sono stati poi fallimenti nella vigilanza: pensiamo, ad esempio, agli scandali Parmalat, Cirio, Enron, Worldcom, Madoff; oppure pensiamo ai titoli spazzatura che venivano spacciati per titoli di altissima qualità (e che, per la cronaca, sono ancora in giro per il mondo). È evidentemente mancato il controllo delle autorità pubbliche (che, a posteriori, sono intervenute e stanno intervenendo – non in Italia, basti pensare, non mi stancherò mai di ripeterlo, alla depenalizzazione del falso in bilancio per salvare Silvio Berlusconi e i suoi amici mentre in tutto il mondo se rubi una mela oggi rischi l’ergastolo).
Questi sono errori nel capitalismo, errori risolvibili, ma occorrono varie condizioni, fra cui mi piace ricordare un governo che riesca a cercare l’intervento per il bene comune, e non solo di certi strati della popolazione, quindi un governo intellettualmente onesto, il che implica un elettorato ben informato (e messo di fronte ad alternative realmente differenti – se i partiti di destra e di sinistra non sono intellettualmente onesti – per l’Italia leggi: se sia i capoccia del PD che i capoccia del PdL sono costantemente coinvolti in inchieste e scandali – non c’è scampo); e inoltre un governo che sia capace almeno di provare a vedere le conseguenze di medio-lungo periodo che le sue decisioni possono comportare (e questa è probabilmente la condizione più difficile: la vita dei governi è davvero breve, basti pensare che la crisi finanziaria è venuta dopo la presidenza di Bill Clinton, che sostanzialmente ha aperto le porte alla crisi – ma che ancora gode di un forte peso – , dopo la presidenza di George W. Bush, che ne ha vissuto solo l’ultimo anno e che, essendo in fine mandato, non è stato – ancora – adeguatamente punito – ci penserà la storia, contrariamente a quanto afferma il nostro premier -, e del regno di Greenspan, finito nel 2006).
Gli economisti, nel corso del tempo, hanno generato un’incredibile letteratura in questo campo, e praticamente in ogni corso di economia che ho frequentato venivano ripetuti gli stessi identici concetti riguardo conflitti di interesse, asimmetria informativa e compagnia bella. Il problema, almeno dalle nostre parti, è che chi si occupa di economia, troppo spesso non è un’economista e spesso non sa (o non vuole sapere) tutte queste cose.