Nell’articolo di ieri ho colpevolmente dimenticato di trattare il caso di un Paese che ha fatto ciò che qualcuno chiede di fare in Italia (avevo già scritto tanto, mi è passato di mente). Mi è stato fatto notare su Twitter, ne abbiamo discusso e riporto qui le conclusioni (se qualcuno ha seguito Michele Boldrin ieri sera, non leggerà niente di nuovo).
L’Argentina, nel 2001, abbandonò il regime di cambio fisso con il dollaro, e dieci anni dopo cresce che è una bellezza. Facciamolo anche noi, dicono.
E dicono male.
L’abbandono del regime di cambio fra peso e dollaro fu alla base del default argentino (come previsto nell’articolo di ieri). La paurosa recessione in cui cadde il Paese fu dovuta proprio a quell’operazione sciagurata.
Poi le cose sono andate meglio? Dipende: andate meglio per chi? Ci sono larghe fette della popolazione che ancora oggi, nonostante la poderosa crescita economica, ancora non sono tornati ai livelli precedenti la crisi, sottolineava bene Boldrin (annunciando un suo studio a riguardo per i prossimi mesi).
La crescita economica argentina ha alla base (come altri Paesi del Sudamerica, come il Brasile) la ricchezza di materie prime. La forte crescita dell’Argentina si deve all’aumento di prezzo che tali materie stanno subendo, in altre parole la crescita dell’Argentina si basa sul suo settore primario.
La nostra economia, invece, si basa sul settore secondario, cioè quello della trasformazione delle materie prime in altri prodotti. L’Italia, però, è povera di materie prime, e per far lavorare il settore secondario deve importarle. Se usciamo dall’euro, importare diventa più costoso, mentre esportare diventa più conveniente, poiché il prezzo dei nostri prodotti per gli stranieri cala (mentre per noi residenti il prezzo di tutto sale). Se le imprese italiane che esportano decidono di far pagare agli stranieri il più elevato prezzo delle materie prime, una parte del beneficio derivante dalla svalutazione va a farsi friggere (per esempio il prezzo dell’energia più o meno quasi raddoppierebbe in un attimo, visto che per due terzi proviene da fonti di cui l’Italia è povera, e questo è uno dei costi da scaricare sul cliente straniero). In poche parole, le nostre imprese beneficeranno poco della svalutazione, poiché i danni, per un Paese fortemente importatore, saranno notevoli.
Per l’Argentina non è così: l’Argentina raccoglie, estrae ed esporta. L’Italia, invece, importa, lavora ed esporta, perché non ha la sua Patagonia.
Ricapitolando: gli argentini stanno ancora subendo la fine dell’ancoraggio al dollaro; la crescita non è a beneficio di tutti; l’Italia non ha le materie prime dell’Argentina, per cui non possiamo essere la loro copia. Infine l’Argentina ha Chavez che stacca assegni sostanziosi, noi no.
Per recuperare competitività si possono fare tante cose che non comportano i disastri derivanti dall’uscita dall’euro. Per esempio:
- Ridurre drasticamente l’interventismo statale nell’economia: lo Stato deve regolare, fare l’arbitro, fare in modo che le imprese non si organizzino per spremere i consumatori come dei limoni, ma non produrre, poiché lo Stato è inefficiente;
- (quindi) Privatizzare (per bene, non all’italiana, non agli amici, non ai capitalisti senza capitale) e usare quel denaro per ridurre il debito pubblico, che soffoca l’economia privata togliendole risorse;
- Dichiarare di essersi scassato le palle delle imprese (non tutte, sia chiaro) che non vogliono crescere, che vogliono rimanere small forever (e ci riescono perché lo Stato le sussidia), quindi favorire fusioni e consorzi fra imprese, specie quelli che si focalizzano su ricerca e sviluppo (che nelle piccole aziende, com’è noto, non puoi fare).
Queste (e altre) sono misure che aumentano la competitività delle imprese (e la terza fa progredire il Paese nel lungo periodo).
Uscire dall’euro, invece, è l’ennesimo trucco di un Paese alla ricerca perenne di scorciatoie, disposto ad autodistruggersi piuttosto che affrontare i problemi.