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Italia 2010: se questa non è una tragedia

Ieri sera a Report si parlava di welfare, cos’è, come funziona, come lo paghiamo. Uscivano fuori situazioni abbastanza paradossali, ad esempio che una donna, dopo aver lavorato per trent’anni (part time, alle dipendenze di un comune che non può/vuole pagare contributi) si ritrova ad avere accumulato appena cinque anni e rotti per la pensione. Quindi alla fine le spetterà la pensione sociale. Il che è già qualcosa, visto che probabilmente la mia generazione non avrà diritto neppure a quella: infatti, se oggi abbiamo eserciti di immigrati che lavorano gratis (nel senso che versano contributi all’INPS per pagare la pensioni di oggi, senza riceverle perché sono ancora molto giovani), in futuro bisognerà, giustamente, pagare le pensioni anche a loro. E viene da chiedersi come.

Il problema è che per il nostro sistema produttivo, spiega Felice Roberto Pizzuti, economista a La Sapienza, il welfare «non è un opportunità che gli dà capitale umano, che gli dà ammortizzatori sociali, che gli dà redditi di sicurezza per rinnovare». Il welfare è un costo e nient’altro.

Prima di spiegare perché è così, bisogna dire che il welfare è lo stato del benessere, ovvero pensioni, certo, ma anche sussidi di disoccupazione, servizi, istruzione, sanità e tutto quanto serve a dare ad una popolazione tranquillità e dignità umana durante tutto l’arco della propria vita.

Nel nostro sistema produttivo, però, queste cosucce sono inutili, perché, come dice sempre Pizzuti, il nostro sistema produttivo è arretrato.

Questo è un punto fondamentale di cui tutti gli italiani dovrebbero essere a conoscenza: il nostro malessere, i ragazzi che non completano neanche le medie superiori, i morti sul lavoro, le pensioni minime, la precarietà, i cervelli in fuga, le tasse stratosferiche, la crisi del tessile e tutto quanto di male vi possa venire in mente, deriva tutto dal fatto che, per quanto siamo sulla carta un Paese del primo mondo, nella realtà dei fatti siamo un Paese profondamente arretrato, come spiega Paolo Epifani dell’Università Bocconi (cui farò riferimento nel seguito dell’articolo).

Se analizziamo, tanto per cominciare, la crescita economica italiana degli ultimi 50 anni notiamo che (grafici sotto):

  1. decliniamo in senso assoluto: il tasso di crescita del nostro PIL pro capite (ovvero la ricchezza prodotta per persona) declina da decenni;
  2. decliniamo in senso relativo: rispetto ai nostri più vicini partner (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna), cresciamo molto meno di loro (questo negli ultimi trent’anni).

Crescita del PIL pro capite 1951-2004
Crescita relativa 1951-2004

Se il primo punto è facilmente spiegabile, diciamo addirittura normale, il secondo lo è molto meno. Perché l’Italia cresce meno degli altri? Epifani propone due spiegazioni:

  1. le politiche restrittive che ci hanno permesso di entrare nell’Euro;
  2. l’incapacità del sistema Italia di competere nel mondo globalizzato.

La prima, pur avendo avuto un certo impatto, a mio avviso passa in secondo piano, visto che tali politiche avrebbero dovuto avere un effetto benefico in un periodo più lungo, cosa che però non è avvenuta (tralasciamo il perché, non voglio buttarla in politica già adesso, ma ricordate chi ha dominato il decennio successivo l’entrata dell’Italia nell’Unione europea).

Passiamo dunque al secondo punto, ovvero l’incapacità strutturale dell’Italia di competere.

Per prima cosa dobbiamo avere bene in mente come sia strutturato il sistema produttivo italiano. Come potrete bene immaginare, il nostro sistema produttivo è dominato dalle piccole e medie imprese: nel 2001, dice Eurostat, oltre il 73% delle imprese aveva meno di 250 addetti. Sapete quali altre nazioni avevano una percentuale simile? Portogallo (75,3), Grecia (73,8) e Spagna (72,3). Metteteli in fila e avrete i PIGS (non ho i dati dell’Irlanda, ahimè).

Tutti gli altri Paesi raramente superano il 55% di PMI: sotto di noi c’è la Danimarca, con 58, poi Belgio e Francia con 52,8 e via a seguire. La media UE a 15 Paesi è del 53%

Il fatto di essere dominati da piccole e medie imprese ha sia lati positivi che negativi. Fra quelli positivi:

Fra quelli negativi ci sono:

Fare ricerca costa troppo per le piccole imprese, quindi conviene continuare a produrre mozzarella, scarpe e vino, e basare su questi prodotti la nostra economia. Nel 2005, afferma l’OECD, l’Italia aveva poco più di 3 ricercatori ogni mille lavoratori. Dietro di noi solo la Turchia, mentre la media OECD è oltre il doppio. Poca ricerca significa niente nuovi prodotti. Niente nuovi prodotti, significa niente nuovi mercati. Niente nuovi mercati significa niente nuovo lavoro. E nei periodi di crisi, licenziamenti. A cominciare, appunto, dal settore della ricerca (ricordate la vicenda NokiaSiemensNetwork?).

Il problema, però, è che i mercati esistenti, quelli che le nostre aziende già servono, sono saturi dei nostri prodotti. L’Italia esporta la maggioranza dei suoi prodotti ai Paesi UE, mentre ignora i mercati più distanti e più promettenti (come Asia e America Latina). Immaginate se l’Italia potesse vendere mozzarelle a un miliardo di cinesi. Ma no, non si può. E allora la Cina se le produce da sola. E poi le esporta.

Ecco, magari questo non succede per le mozzarelle. Ma in altri settori sì. Pensate che il primo settore dell’export italiano sono le calzature, seguito dal tessile. Davvero, pensiamo di poter competere con i cinesi?

Generalizziamo: l’Italia eccelle(va?) in alcuni settori della manifattura, ovvero nella produzione di prodotti che non necessitano di ricerca, di economie di scala, di abilità intellettuali, di alta tecnologia. Quindi bene nel tessile, nelle calzature, nella produzione del vetro, eccetera. Male nella chimica, nell’elettronica, nella metallurgia e così via.

Il problema è che i nostri settori tradizionali hanno deboli barriere all’entrata, visto che i metodi di produzione sono facilmente copiabili (essendo anche non particolarmente innovativi). Non servono grandi abilità per creare delle scarpe: basta spezzettare il lavoro in piccoli compiti che anche una scimmia può fare e crei quante scarpe vuoi. E così per molti altri settori.

In un sistema produttivo arretrato, infatti, non c’è bisogno di lavoratori preparati. Servono scimmie, non laureati. In un sistema produttivo arretrato come il nostro non mi serve l’istruzione. Non mi serve pagare la pensione. Non mi serve investire sulla sicurezza e sulla salute dei miei impiegati. Non mi serve il welfare. Mi servono delle accidenti di scimmie. E se le scimmie italiane rifiutano di lavorare in questo sistema arretrato, preferendo studiare e prendere qualche laurea, allora io assumo qualche bingo bongo, che li pago pure molto meno. Non serve mica la laurea per raccogliere pomodori o per infilare lacci nelle scarpe. E se tu, Stato, non mi permetti di assumere in nero, o di assumere in bianco, ma con contratti part-time (senza contributi) o con partita IVA (senza contributi uguale), io chiudo l’azienda e sposto la produzione in Cina, che mi costa molto meno.

Questo però ha una conseguenza devastante: gli altri Paesi, quelli emergenti, accogliendo le nostre esternalizzazioni, cominciano ad imparare a produrre i nostri prodotti. A costi inferiori. E quindi possono venderli a prezzi inferiori ai nostri nuovi disoccupati. Questi qui verranno a farci concorrenza nei nostri settori, nei nostri mercati: perché un tedesco dovrebbe comprare una scarpa prodotta in Italia e non la stessa scarpa prodotta in Cina con tecniche italiane ad un prezzo inferiore?

Gli altri Paesi sopravvivono perché creano prodotti sempre più complessi, prodotti che la Cina può assemblare, non certo creare. Per quanto un iPhone sia assemblato a Taiwan, la sua creazione, i suoi componenti sono progettati negli USA o in distretti tecnologici dei Paesi avanzati (pure in Italia, ad esempio nel distretto della fu NSN, ne ho già parlato).

L’Italia no. L’Italia non fa ricerca. L’Italia non vuole laureati. Non vuole istruzione. I cervelli in fuga? Se vogliono tornare, ci sono i carciofi da raccogliere. Le pensioni? Sono un costo da evitare.

Però, però. La gente vota. È vero che l’istruzione non serve all’Italia, ma bisogna almeno dare una parvenza di civiltà, se no che figura ci facciamo? E poi non puoi togliere le pensioni: anche i pensionati votano, e visto che dobbiamo pure dargli la salute (perché non siamo il Congo), questi non muoiono più, e continuano a votare.

E allora il governo interviene. Innanzitutto con tasse alte (ma solo sul lavoro dipendente, l’ICI ai ricchi no, lo scudo fiscale agli evasori sì) per pagare il welfare. Poi con tagli progressivi alla spesa pubblica (ma solo quella utile): prima la carta igienica, poi gli insegnanti, ad esempio. Poi con l’introduzione di un sistema del lavoro che dice flessibilità, ma intende precarietà. Ed è tutto collegato: ai precari non spettano contributi (o magari li pagano ma non li ricevono), quindi oggi puoi pagarli di meno. Questo vale sia per le imprese che per lo Stato, quindi significa meno spesa pubblica sia oggi che domani. Infatti zero contributi significa pensione minima in futuro. Pensione che arriva sempre più tardi, perché la prospettiva di vita si allunga, nel 2013 sconfiggeremo pure il cancro, quindi devi lavorare fino a settant’anni, o magari pure ottanta, per una pensione minima che non ti assicura certo la tranquillità.

Questo è un problema di una complessità assurda, e se siete arrivati fin qui l’avrete notato. La parola chiave per comprendere tutto è “insostenibile“. Il welfare così come lo conosciamo oggi è insostenibile, perché l’Italia non cresce, non produce nuova ricchezza. E non produce nuova ricchezza perché il suo sistema produttivo è vecchio. E per i governanti va bene così: cambiare lo status quo, cessare l’erogazione di contributi a pioggia per non si sa bene cosa, abolire le corporazioni per mettere in concorrenza i professionisti, tracciare i guadagni dei nullatenenti che girano in SUV, favorire il mercato, ce lo hanno insegnato le lenzuolate, le liberalizzazioni di Bersani, significa perdere voti. Non è un caso se ai piani alti si parla di grandi riforme, ma costituzionali, della giustizia, forse del fisco (che poi te la raccomando), ma non del lavoro, non dell’impresa, non dell’economia. Questo, però, significa declino. Significa povertà. Altro che benessere. Però ci sono lati positivi: la nostra mafia non sarà più la sesta del mondo, ma riuscirà a scalare la classifica approfittando della debolezza delle imprese oneste. Sono queste cose che mi rendono orgoglioso di essere italiano.

E mentre tutto declina, il governo nega. Chi vi dice queste cose è una cassandra, un comunista. Guardate Tremonti come risplende: «stiamo come o meglio degli altri». E i giornalisti al seguito lo guardano estasiati, con le lacrime agli occhi, e trascrivono tutto. Senza verificare perché tanto all’italiano medio che je frega dei numeri e delle statistiche? Può mai capire che dicono Zanella e Boldrin? A stento ha un diploma di scuola media. Sembra il consiglio comunale di Adro!

Quindi basta con questa moda del welfare. Nasci, studi abbastanza da poter capire «stiamo meglio degli altri», ma non per capire che non è vero, se sei fortunato trovi un lavoro, ovviamente sottopagato, svolgi mansioni alienanti per sessant’anni, fai figli che da grandi staranno peggio di te, e infine se sei così fortunato da non morire in un cantiere o per un’insolazione nei campi, a ottant’anni ti becchi la pensione minima (forse). Poi muori per un raffreddore, perché, sai com’è, gli ospedali pubblici costavano troppo. Ma davvero non avevi i soldi per pagare il riscaldamento?

Sembra paradossale, ma questo è il percorso che rischiamo di prendere: non sto parlando di chissà che, semplicemente, visto che il welfare è insostenibile, torneremo all’Ottocento, quando il welfare non c’era. Basta pensioni, basta istruzione, basta sanità. Magari i nostri genitori se la scampano. Ma alla mia generazione forse conviene cominciare a prepararsi, anche ad emigrare, perché a meno che non appaia un lungimirante salvatore della patria (che io però non riesco a intravedere), non ci sarà uno Stato a fare da cuscinetto alle disgrazie. O almeno, questo Stato non sarà l’Italia.

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