Questo articolo ha un’appendice riguardante la proposta Tremonti.
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Premessa a beneficio di chi non se ne fosse accorto (ovvero la dirigenza del Partito Democratico, a voler essere in buona fede): Silvio Berlusconi, da qui alle elezioni di marzo, si giocherà il suo futuro politico, quindi giocherà pesante.
Per l’occasione, Berlusconi tirerà fuori due carichi pesanti: uno è l’ormai noto slogan del partito dell’amore con tanto di volto di Berlusconi sfigurato da Massimo Tartaglia; l’altro è il solito, vecchio, “meno tasse per tutti”. Mi occuperò solo del secondo.
Berlusconi sono 16 anni che tira fuori questo slogan, sotto varie forme, anche recentemente: nel 2006 parlò di abolizione dell’ICI (vinse poi Romano Prodi, e la fece, ma lasciò l’ICI per i ricchi, che Berlusconi abolirà, insensatamente, due anni dopo); nel 2008 parlò di abolizione del bollo auto, e ancora non è pervenuto.
Abbiamo motivo di ritenere che questa volta Berlusconi decida per il taglio delle tasse? La risposta è no. Non l’ha fatto nel 1994 (se non per le sue aziende); non lo ha fatto nei cinque anni di governi dal 2001 al 2006; e non lo farà nemmeno nel 2010, perché, a meno di magheggi contabili che condanneranno l’Italia al default entro il 2020, il Paese non può permettersi un taglio delle tasse, non fino a quando non si farà in modo che le tasse le paghino tutti (quindi una vera lotta all’evasione fiscale deve venire prima del taglio delle tasse).
Ciò non vuol dire che nei prossimi mesi non ne sentiremo parlare. Per quanto Paolo Bonaiuti smentisca, Berlusconi e la Lega Nord continueranno a parlare di taglio delle tasse da qui fino a marzo, pur sapendo che questo non avverrà mai: serve solo a soddisfare il popolino, quello che da 16 anni crede alle favole, e continuerà a farlo.
Venendo un attimo al dettaglio (non mi voglio dilungare, perché il fisco è una materia tendente all’assurdità). Si parla di istituire due sole aliquote, al 23% e al 33%. Questo significa, se non erro, che chi oggi paga dal 38 al 43% (redditi superiori ai 50000 euro), otterrà un significativo risparmio d’imposta. Chi invece è sotto i 50000 euro (ovvero chi è più o meno povero), non si vedrà cambiare granché, quindi il “meno tasse per tutti” significherebbe “meno tasse per i ricchi”. È sempre la solita storia: dopo l’abolizione dell’ICI ai ricchi, dopo l’abolizione della tassa di successione, dopo lo scudo fiscale, anche questa manovra si direbbe essere un favore ai più abbienti, quelli che tutto sommato le tasse potrebbero pure pagarle senza rischiare di non arrivare alla fine del mese.
Il che significa, come sempre in Italia, che saranno i più poveri (ovvero le fasce medio-basse) a pagare per i più ricchi, e al diavolo la progressività dell’imposta. Non è un caso se l’Italia è uno dei Paesi del mondo in cui il divario fra ricchi e poveri è enorme, e tende ad allungarsi.
Ultimo punto, il quoziente familiare di cui si parla tanto e da tempo. Perché non lo fanno, nonostante sia bipartisanamente una buona idea? Lo spiega bene Piercamillo Falasca su Chicago Blog: il problema è il centro cattolico (quindi bipartisan) che esige che il quoziente familiare venga introdotto solo per i nuclei familiari basati sul matrimonio. Ma purtroppo una simile legge rischia di essere decisamente incostituzionale, oltre che insensata: il quoziente familiare è stato ideato per alleviare il carico fiscale di quelle famiglie (in senso allargato) che hanno già altri “carichi”, ovvero bambini, anziani e disabili, non per favorire i matrimoni. Tra l’altro premiare il matrimonio disincentiva il lavoro femminile, che invece ci serve assolutamente per uscire dalla crisi.
Ogni riforma fiscale, infatti, deve badare bene di premiare la produzione di ricchezza, ovvero il lavoro, e non il contrario.