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Perché non paghiamo abbastanza per il petrolio

Di recente Davide Tabarelli è tornato sulla questione petrolio. Avevamo già incontrato Tabarelli, docente di economia ed energia e presidente di Nomisma Energia. All’epoca, si parla di due mesi fa, il petrolio era nei pressi dei cento dollari al barile, e parlavamo dello spettro della soglia dei 150$ come una cosa possibile, ma ancora lontana. Oggi però il barile è arrivato ormai a 130$, e lo spettro non è più così lontano. Le conseguenze, tuttavia, sono sempre quelle.

Eppure, non paghiamo ancora abbastanza per il petrolio. Non paghiamo abbastanza perché ci ostiniamo a non voler regolamentare il mercato. Come dice Tabarelli, ci troviamo di fronte a un fallimento del mercato, in special modo se consideriamo che il Congresso degli Stati Uniti (il Paese liberale per eccellenza) vuole intervenire nella questione. Notizia di questi giorni, per esempio, è la volontà di tagliare le tasse sul carburante per ridurne i prezzi durante l’estate.

Ma perché il mercato ha fallito? Io trovo che la prima motivazione sia il fatto che esiste un cartello, l’OPEC, che regola l’offerta di petrolio, che distorce il mercato. Tabarelli stima che i Paesi produttori dell’OPEC quest’anno guadagneranno mille miliardi di dollari, più o meno quanto il PIL dell’India o, se volete, la metà del PIL italiano.

La domanda di petrolio aumenta vertiginosamente, anche grazie o per colpa dei Paesi emergenti, che crescono ad un ritmo incredibile. L’offerta di petrolio, però, rimane la stessa: conseguenza, il prezzo aumenta.

Perché l’OPEC non aumenta l’offerta? Sappiamo che il petrolio c’è. Ma bisogna considerare innanzitutto che l’OPEC è formato prevalentamente da Paesi arabi, e dall’11 settembre questi Paesi sono stati portati a chiudersi in sè stessi a causa dell’odio o della paura dell’uomo occidentale. Inoltre i Paesi arabi non hanno la tecnologia adatta per sfruttare al meglio i giacimenti: questo perché hanno nazionalizzato le strutture e cacciato le tecnologicamente avanzate aziende occidentali. Infine, ovviamente, i Paesi produttori non hanno interesse a tenere alta l’offerta: se consideriamo che molti Paesi stanno decidendo di affrancarsi dal petrolio, grazie ai biocarburanti e compagnia bella, è ovvio che i produttori vogliano spremere per bene i propri “clienti” finché c’è trippa per gatti.

Poi, ovviamente, a fronte dell’offerta limitata, nascono ulteriori speculazioni: mai sentito parlare del mercato nero dei tempi di guerra, quando il pane era scarso e razionato? Bene, come allora c’erano gli speculatori, ci sono anche oggi.

E infatti Tabarelli ribadisce che un barile di petrolio, alla fonte, costa 5$. Noi lo paghiamo 130. Eppure è ancora poco.

Bisogna trovare nuove strade, e soprattutto cominciare ad utilizzare le fonti alternative esistenti.

A riguardo,  per non ripetere quanto ho già detto nell’articolo precedente, ricordo che già da tempo si parla di fusione fredda. Gli studi si sono impantanati per cause squisitamente politiche all’interno della comunità scientifica. L’Italia già da anni aveva avviato degli studi, era un Paese all’avanguardia, ma poi il progetto è stato fermato. Ne ha parlato quasi due anni fa anche Rainews24, mostrando il rapporto 41 dell’ENEA, che dava risultati giudicati “impressionanti“. Per motivi non ancora chiari, però, tutto è stato fermato, ma nel frattempo altri Paesi ci hanno già raggiunto, e rischiano di utilizzare questa nuova fonte di energia prima di noi, magari brevettando il metodo e impedendoci di utilizzarlo liberamente.

Non sarebbe meglio continuare gli studi ed evitare che qualcuno ci sorpassi, se, come sembra, la fusione fredda è una realtà effettivamente esistente? La richiesta di ulteriori finanziamenti non è stata però presa in considerazione, e l’esilio volontario di Rubbia in Spagna ha bloccato i lavori a tempo indefinito.

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