Pistolotto che, tra le altre cose, ricapitola un po’ le cause “nascoste” della crisi europea, per International Business Times
Si parla anche di Cipro, ma erano tempi non ancora sospetti (12 marzo)
Tutto fa brodo in campagna elettorale, lo sanno anche i tedeschi. La Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), giornale conservatore, soffia sul fuoco dell’antieuropeismo di stampo teutonico basato sul ritornello “la vostra crisi non la paghiamo”. La FAZ è giunta in possesso di un report BCE che dimostrerebbe come i Paesi ‘cattivi’ (come i PIIGS ma soprattutto Cipro, in questo caso) siano in realtà più ricchi di quanto possa sembrare, e che per questo la loro crisi dovrebbero pagarsela essi stessi. Peccato che questa idea, per quanto affascinante per due terzi dei tedeschi, ignori bellamente le cause della crisi europea.
Intanto vediamo i numeri: il report della FAZ considera il patrimonio medio degli adulti dei Paesi europei, e già questo dovrebbe far sentire odore di bruciato. È sempre la storia del pollo di Trilussa: se una persona ha due polli e un’altra nessuna, in media hanno un pollo ciascuno. Le lamentazioni tedesche parlano di Cipro, ma strizzano l’occhio all’Italia, patria dell”odiatissimo’ Mario Draghi.
Il casus belli è infatti il salvataggio di Cipro: qui il patrimonio medio per adulto si attesta a 87mila euro, ben superiore alle medie di altri Paesi che dovrebbero sborsare quattrini per salvare Nicosia, come slovacchi (19mila) o estoni (21mila), in modo tale che questi ultimi si indignino a sufficienza per accodarsi al trenino tedesco che non vuole sborsare il becco di un quattrino.
Chi deve avere orecchie per intendere, però, è l’Italia, che con il suo 165mila euro di patrimonio medio per adulto si piazza ai vertici della classifica, ben al di sopra anche della Germania, ferma a 135mila. Se poi in Italia ci sono ricchi molto ricchi e poveri molto poveri e la forbice fra i due ceti si allarga, pazienza: la media parla chiaro, gli italiani navigano nell’oro, è evidente.
Bando al sarcasmo: questa statistica, vista nell’ottica e nella dinamica della crisi europea, vale quanto la carta straccia, se possibile anche meno.
Altri dati parlano chiaro, ne abbiamo parlato ieri: le famiglie italiane si ritrovano con sempre maggiori disoccupati sul groppone e la ricchezza viene via via sempre più intaccata per sopravvivere. Parliamo, chiaramente, non dei ricchi (che hanno i mezzi per continuare ad accumulare), bensì della classe media e di chi sta più in giù nella scala sociale.
Chi sono i colpevoli di questa sventura? Internamente lo sappiamo: siamo noi italiani, che abbiamo scelto più e più volte negli ultimi anni governanti di rara incapacità quanto dubbia onestà. Ma ci sono anche cause esterne, e molte di esse risiedono in Germania.
È un fatto che la Germania abbia approfittato della crisi per fare il proprio gioco: la disoccupazione, che nel 2005 era del 11% (con punte del 17% nella Germania est), si è oggi dimezzata ed è sui minimi. In che modo? A scapito dei partner europei (anche se le colpe vanno condivise, come vedremo). La bilancia commerciale europea nella sua interessa è infatti più o meno in equilibrio, ma guardando i dati per Paese notiamo che la Germania ha incassato rilevanti surplus commerciali a scapito dei PIIGS e della Francia.
In linea vagamente teorica questo squilibrio si sarebbe dovuto risolvere lasciando che salari e prezzi si riequilibrassero, nella fattispecie facendo aumentare stipendi e inflazione nell’area germanica relativamente a quelli della periferia. In altre parole, dato che il motore tedesco girava a forti ritmi, si sarebbe dovuto surriscaldare e quindi rallentare. Il governo tedesco è però intervenuto per contenere questa febbre (l’inflazione) impedendo ai salari di crescere oltre la produttività, sicché la Germania ha potuto proseguire nella sua cannibalizzazione d’Europa, e anzi ha cominciato a bacchettare i Paesi giudicati meno virtuosi. Peccato che, ad esempio, in questo modo gli squilibri si siano approfonditi, creando problemi anche a Paesi virtuosi. La Spagna di inizio secolo, ad esempio, era messa molto meglio della Germania quanto a conti pubblici, proprio negli anni in cui Berlino gestiva una crisi economica condita da disoccupazione record. Memoria corta, come al solito.
La Germania ha quindi stabilito che, invece di aumentare il livello dei prezzi e dei salari nell’area germanica, sarebbero dovuti essere i Paesi ‘cattivi’ ad abbassare i propri (ovvero fare austerità, tanta austerità). L’effetto finale, in teoria, è lo stesso. Peccato, però, che svalutando internamente il costo reale del debito diventi ingestibile, e da questo consegue una buona parte della crescita del debito pubblico (e dei relativi rendimenti) nei Paesi periferici. Si creano nuovi buchi di bilancio, che devono essere ripianati con nuova austerità, che creano nuove difficoltà alle imprese, mandano in asfissia le banche, creano disoccupati, dopodiché si ricomincia con altri buchi di bilancio e così via, fino alla morte. Il motore dei Paesi periferici (ovvero tutti, tranne Germania e Finlandia, come le notizie recenti dimostrano) si raffredda progressivamente, mentre quello tedesco continua a viaggiare a pieno ritmo.
Almeno finché la giostra non si rompe: la situazione potrebbe peggiorare ancora, e, se oggi uscire dall’euro non è conveniente per nessuno (nemmeno per i tedeschi), domani potrebbe diventare un male ‘meno peggiore’ che rimanere stritolati dai diktat tedeschi.
Ciò che i tedeschi non sembrano voler capire (ma non sono i soli) è che la rottura dell’euro porta inevitabilmente a una catastrofe continentale, in cui saranno coinvolti comunque. La moneta è neutra, i problemi sono reali, e si avrebbero anche se in Italia tornassimo alla lira piemontese e al ducato borbonico. Occorre una nuova politica europea che porti a una maggiore integrazione, specie fiscale. I Paesi in crisi hanno evidentemente grossi peccati da scontare, uno per tutti quello della produttività. In Italia, infatti, i salari sono cresciuti nonostante la produttività sia rimasta ferma, ed è ovvio che l’industria italiana sia stata (per propria colpa) soffocata da aziende, come quelle tedesche, che producono meglio prodotti migliori.
È però obbligatorio rendere l’area valutaria dell’euro più ottimale, e la strada passa inevitabilmente per la politica fiscale integrata. Che ci siano squilibri in un’area valutaria è inevitabile, basti pensare agli USA. Gli States, però, hanno una valvola di sfogo in una politica fiscale largamente federale: gli Stati dell’Unione non possono indebitarsi, facoltà lasciata solo al governo federale (e alle singole città). Esattamente il contrario di quanto avviene in Europa.
In Italia un embrione di convergenza fiscale c’era, ed erano i vincoli di Maastricht. I Paesi membri, tuttavia, li hanno interpretati largamente a modo proprio, finendo per abolirli de facto prima (come Grecia e Italia) e de jure poi (come Francia e Germania), quando più gli faceva comodo.
Serve quindi tornare all’Unione Europea delle origini e dargli più forza: le politiche fiscali dei singoli Paesi vanno poste sotto il controllo dell’Europa nella propria interezza per impedire ai singoli Paesi di approfittarne. Nel frattempo, però, è necessario lasciare il pedale dell’austerità: i Paesi ‘cattivi’ devono riformare, ma hanno bisogno di soldi per farlo. Vanno impedite le spese pazze, ovviamente, ma i soldi van trovati: la Germania accetti un rigore meno sciocco oppure condivida una parte del proprio surplus con i propri partner, sotto forma di trasferimenti ai Paesi “poveri” (chiaramente sotto forti vincoli per evitare abusi) oppure di inflazione interna.
Tutto il resto, come il rantolo della Frankfurter Allgemeine, è fumo negli occhi che farà schiantare l’Europa contro un muro di realtà molto, molto duro.