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Perché le banche non sganciano un euro

The Central Bank of Iraq, guarded by U.S. troopsMassimo Riva tiene su “L’Espresso” una interessante rubrica che offre spesso spunti di riflessione, anche se talune volte si risolve in una fiera della demagogia (ma è “L’Espresso” dopotutto, ci scrive anche Alessandro “sono apparso al Padre Eterno” Gilioli). Per questo timore sono balzato sulla sedia quando ho letto il titolo di questo pezzo, che sembra dare alle banche cattive la colpa della recessione in cui si trova l’Italia (e le simili difficoltà degli altri Paesi).

Riva, in realtà, fa molte osservazioni condivisibili e meno spericolate e ideologicamente viziate rispetto al titolo e sottotitolo, che spero siano stati affidati a una seconda persona che non ha capito una mazza di ciò che Riva ha scritto (o almeno di ciò che io ho inteso abbia scritto). La parte che più ci interessa e che vorrei rispiegare (anche perché richiesto qualche tempo fa da un lettore del blog, che ringrazio) è nella seconda metà dell’articolo, in particolare:

Un invito [a finanziare l’economia reale invece di acquistare titoli di Stato, ndTooby] al quale i banchieri replicano che a calare è in realtà la domanda di finanziamenti da parte delle imprese, così sorvolando sul piccolo ma decisivo particolare che la richiesta di prestiti si appiattisce anche, se non soprattutto, a causa dei tassi d’interesse sempre più onerosi pretesi dai medesimi banchieri.

È qui che il ragionamento esce un attimo viziato (ma viene corretto subito dopo da un «Maggiori siano le colpe degli uni o degli altri, fatto sta che il cavallo non beve»): i banchieri non chiedono tassi elevati per sfizio o cattiveria. È nel loro interesse che il debitore sia in grado di ripagare il debito, perché se non lo fa, la banca è costretta a fare ciò che è successo con la Grecia, cioè a dire tanti saluti a un bel pacco di soldi.

La congiuntura economica è quella che è, dunque se il signor Tal dei Tali vuole aprire una gelateria, la banca deve tenere conto del rischio che gli italiani possano decidere di non volersi permettere il gelato, per cui il signor dei Tali rischia di fallire, e così la banca di perdere i soldi prestati. Allo stesso modo, se il signor Tarl dei Tarli vuole comprare casa, la banca deve tenere conto del rischio che il signor dei Tarli perda il lavoro, e così la possibilità di pagare il mutuo (oltre che la casa). La parola chiave è “rischio”. Si tratta di una regola fondamentale dell’economia: maggiore è il rischio, maggiore deve essere la remunerazione attesa. I titoli di Stato rendono poco perché il rischio è basso; investire in derivati consente di ricavare somme spropositate, con il rischio, però, di perdere camicia e mutande nel giro di secondo.

Lo stesso accade per i mutui: il rischio che il debitore non ce la faccia a causa della crisi è ovviamente maggiore rispetto al caso in cui la crisi non ci sia, per cui gli interessi richiesti aumentano e la domanda di prestiti si appiattisce, nonostante l’offerta dovrebbe essere buona perché Draghi ha sparso sul mercato un bel po’ di denaro a buon mercato (e lo stesso dovrebbe fare il 29 prossimo).

Dovrebbe, appunto. Ma qui entrano in gioco le famigerate regole che i governi europei (cioè Riva, i suoi lettori, i miei, io, attraverso i nostri rappresentanti), fra gli altri, impongono alle banche. Investire in titoli di Stato è meno rischioso che investire in prestiti e mutui. Le banche, secondo le regole EBA, hanno assunto troppi rischi in passato, dunque devono rafforzare come possibile il proprio patrimonio e gli attivi investendo in asset meno rischiosi. Sacrosanto, ed in questo senso vanno bene regole del tipo Volcker, che dovrebbero impedire alle banche di fare quegli investimenti che potrebbero danneggiare la propria clientela, ovvero, se vuoi investire in derivati, fallo coi tuoi soldi, non con quelli di chi ha depositato nella tua banca. Però si è andati troppo avanti

Le regole sono diventate ottuse, e se a ciò si aggiunge anche la pressione dei governi ad allentare le tensioni sui titoli di Stato, ecco servito il pasticcio: le banche corrono a comprare BTP e compagni, ma non concedono prestiti a condizioni meno difficili. Questo è evidente quando si guarda la massa monetaria M3, che suggerisce la quantità di moneta creata dalle banche attraverso le erogazioni di prestiti, mutui e compagnia bella. Depressione, almeno fino a oggi.

Infatti poche ore fa è stata rilasciata la stima della quantità di M3, che lascia qualche spiraglio all’ottimismo. L’offerta di moneta è cresciuta più delle attese, e  pure è salito il livello di prestiti a privati, anche se non così bene. Bisogna ovviamente essere timidi, e aspettare il secondo round dello LTRO previsto per il 29: se le banche avranno raggiunto la sicurezza del proprio patrimonio, e se non accadranno altre tragedie (e purtroppo all’orizzonte ce ne sono – ne parlo su Termometro Politico oggi), esse saranno ben liete di accollarsi qualche rischio in più, e far riprendere il circuito dei prestiti. È nel loro interesse. In caso contrario, la BCE potrebbe preparare un terzo round per giugno.

Per questo motivo «le banche non sganciano un euro». Non è che a loro fa piacere «strangolare l’economia»: esse ci sono dentro, e se le cose vanno male, perdono soldi. Ripeto, guardate che fine han fatto i soldi prestati alla Grecia: si sono dissolti come un fiocco di neve sparato nel sole. Il settore bancario va riformato, come suggerisce Riva, non c’è dubbio, le banche devono separare la gestione bancaria dalla “speculazione” (non nel senso complottista del termine, sia ben chiaro), e mettersi a fare le banche. Però bisogna andarci cauti: non si possono fare pressioni assurde sulle banche, non si può chiedere loro di avere la botte piena (un patrimonio troppo forte, che appesantisce l’efficienza della gestione), la moglie ubriaca (fare troppi prestiti all’economia reale, o farli in modo inefficiente), e pure l’amante (costringerle a comprare BTP).

La strada corretta (che poi è la speranza di Draghi) è salvare il sistema bancario (necessario: senza di esso tanti saluti a milioni di posti di lavoro) permettendo alle banche di rafforzare il patrimonio secondo parametri giusti, non punitivi, e spingerle a evitare di assumere rischi eccessivi a danno della raccolta bancaria, invitandole così in due modi a far ripartire il credito ai privati, senza però costringerle ad assumere per forza rischi che è inefficiente correre (prestereste soldi a uno sconosciuto sulla fiducia? Io no, e neanche le banche). Altrimenti (cioè nel caso di prestiti facili) il rischio di strozzare (stavolta letalmente) l’economia diventa concreto: non dimentichiamo che la crisi dei subprime nasce proprio dai prestiti facili concessi a chi non doveva riceverne, e questo a causa di quel bel tomo di Greenspan (ne ho parlato qui e nei commenti al medesimo articolo).

Non va dimenticato, infatti, che molto spesso sono i regolatori (quindi i governi e altre autorità pubbliche, come la Fed di Greenspan, appunto) a commettere errori, sia lasciando eccessiva libertà al mercato (che finisce per divorare sé stesso) che tenendo troppo stretto il guinzaglio (strozzando l’efficienza): le banche, come in generale tutti gli attori privati, puntano all’efficienza, che è cosa economica, mentre i politici hanno altri obiettivi, che sono cose politiche, che spesso costringono a sacrificare l’efficienza per il bene comune. Ma il rischio di fare errori e quello di scadere nell’eccesso non è assente (specie in Paesi ad alto tasso demagogico come l’Italia, ma pure in quelli paranoici come la Germania, per non dire degli altri).

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