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[Economics for dummies] Perché siamo più poveri? (E come ne usciamo?)

Ieri ho avuto un’interessante discussione nei commenti ad un articolo di Malvino circa il pericolo di stagflazione (che è quella rara condizione di stagnazione economica unita ad elevata inflazione). La mia risposta è stata che tale pericolo non veniva (ancora) segnalato dai dati sulla massa monetaria, per cui il pericolo stagflazione, più che probabile, era possibile, e perché ciò potesse avvenire, dicevo, era necessario un qualche tipo di shock come quello petrolifero degli anni Settanta di cui, però, per ora non vediamo l’ombra.

In seguito è intervenuta la mia interlocutrice, la quale è partita da premesse corrette per giungere a conclusioni non supportate da evidenza empirica. Ella sosteneva (correttamente) che la crescita del prezzo dell’oro segnalava benissimo la tesi dell’iperinflazione, che unita alla stagnazione porta alla stagflazione. A questo aggiungeva la rapida perdita del potere d’acquisto subita dai salari degli italiani negli ultimi dieci anni: questo dimostrava, secondo lei, che l’Italia era già in stagflazione, sebbene ciò non fosse dimostrato dai numeri, né vi fossero indizi a sostegno dell’ipotesi.

Insomma si affermava che «la stagflazione [esiste, ma] viene mascherata». Il che mi fa tanto prova ontologica dell’esistenza di Dio (che detta [anche troppo] brutalmente afferma che Dio esiste perché non può non esistere).

Essendo molto interessante capire perché non siamo in stagflazione e quindi capire il vero motivo per cui i nostri salari sono calati in termini reali, scrivo questo Economics for Dummies di 2800 parole. Per cui prendetevi il tempo che vi serve, penso l’abbia scritto in modo abbastanza piacevole.

La corsa dell’oro è dovuta alla necessità di costruire una valuta di riserva a causa della perdita di valore del dollaro USA: la Federal Reserve ha stampato enormi quantità di denaro e, per la legge della domanda e dell’offerta, se l’offerta aumenta, il dollaro perde valore e ciò si traduce in inflazione. È già successo nel 1971: Nixon sganciò il dollaro dall’oro e lo svalutò; gli sceicchi, che non volevano farsi pagare in carta straccia, aumentarono il prezzo del petrolio (seguendo l’aumento del prezzo dell’oro, che fu immediato e non graduale come oggi). Shock petrolifero, recessione, inflazione, stagflazione.

Ma questa stagflazione fu uguale per tutti? La risposta è no.

Inflazione in Italia, elaborazione grafica di http://www.inflation.eu

Negli USA, che fu l’epicentro della crisi, negli anni Settanta l’inflazione oscillò fra il 5% e il 15% (ovvero rimase attorno al 9%). In Italia non fu così, fu molto peggio: l’Italia sperimentò un’oscillazione fra il 10 e il 25%, e l’inflazione rimase sopra il 10% fino al 1984 (quando fu ammorbidita la scala mobile) e si stabilizzò (ancora alta) attorno al 5% nel decennio successivo (quando la scala mobile fu finalmente abolita del tutto). Come mai questa differenza mostruosa? A differenza che altri Paesi (come la Germania, ne parliamo fra un attimo) l’Italia rispose aumentando la domanda interna, ovvero riducendo le tasse, aumentando gli stipendi con il perverso meccanismo della scala mobile e aumentando la spesa pubblica, e quindi il debito pubblico. Del risultato ho parlato estesamente qui. Fu una catastrofe da cui avemmo l’illusione di uscire solo sotto Craxi, con la sua crescita a debito (quella che stiamo pagando noi oggi, mentre lui è calato nella tomba e i suoi figli campano a spese nostre).

In Germania le cose andarono diversamente: l’inflazione fu alta, ma rimase attorno al 5%, oscillando fra il 4 e l’8%. Addirittura mentre negli anni Settanta l’Italia vide tassi d’interesse a breve termine reali quasi sempre negativi (normali in un periodo di stagflazione), la Germania pagò tassi quasi sempre positivi. Tassi negativi significa che, tenuto conto dell’inflazione, chi aveva titoli che davano quei tassi alla fine perdeva soldi.

La differenza fra Italia e Germania è che la seconda non stimolò la domanda interna. Il governo non tagliò le tasse, non aumentò la spesa pubblica, in altre parole non inseguì l’adeguamento dei salari all’inflazione. I tedeschi strinsero i denti, in alcune fabbriche, pur di tenerle aperte, si facevano delle ore di lavoro gratis. La Bundesbank, la Banca Centrale Tedesca, proseguì nella sua lotta all’inflazione, che alla fine fu vinta: l’inflazione (divenuta addirittura deflazione nel 1986), salvo brevi picchi, rimase attorno al 3% fino ai giorni nostri, e i salari, a differenza che in Italia, si adeguarono al nuovo costo della vita molto in fretta: ancora oggi i tedeschi stanno meglio degli altri.

È in ragione di questo successo che la Banca Centrale Europea ha ereditato lo statuto della Bundesbank (fra poco aggiungeremo dei caveat, non ho cambiato idea sulla Germania), ed è per questo che l’euro ha funzionato e funziona per quello che serve. Purtroppo gli altri Paesi (specie quelli mediterranei, guarda caso quelli cattolici) non hanno ereditato le pratiche fiscali e la luterana dedizione al lavoro dei tedeschi, e per questo ci troviamo in questa maleodorante landa di produzione intestinale equina.

E veniamo all’ultimo decennio.

Negli ultimi dieci anni, grazie alla Banca Centrale Europea, l’inflazione è rimasta sotto controllo, diciamo (come ho già detto) che negli ultimi dieci anni l’inflazione è stata normale. E qui va aperta una parentesi per rispondere a domande che qualcuno si starà sicuramente facendo.

In base a che cosa un’inflazione, cioè una crescita dei prezzi, viene definita normale? Perché i prezzi devono per forza salire? Perché non possono scendere o almeno rimanere fermi? Domande lecite, ma darò risposte brevi perché non è il topic di questo pezzo.

Diciamo subito che tenere fermi i prezzi è difficile perché non li si possono controllare esattamente. Per cui diamo per scontato che i prezzi non stanno mai fermi, né possono esserlo.

In Europa l’inflazione viene definita normale se non supera il 2%, negli Stati Uniti se non supera il 3%, in altri Paesi gli obiettivi di inflazione possono essere diversi. Quel numero è sostanzialmente definito in modo quasi arbitrario, non è un grosso problema (ceteris paribus) se l’inflazione arriva a 0 o a 5. Importa che il numero sia non troppo grande e non negativo. Non deve essere troppo grande perché l’inflazione è una tassa occulta, e se le tasse sono troppo alte la gente si impoverisce in fretta.

Non deve poi essere negativo perché questo creerebbe forti squilibri che nascono da motivi squisitamente psicologici. Facciamo un esempio: il prezzo del pane cala e quindi calano i ricavi del panificio. Il proprietario (persona onesta) deve quindi tagliare i salari dei suoi operai-panettieri. Badate bene: si tagliano i salari, ma a causa della diminuzione del prezzo del pane, alla fine per gli operai-panettieri nulla cambia, perché possono comprare la stessa quantità di pane che compravano prima, ovvero non diventano più poveri. Però non si va contronatura, gli operai-panettieri si sentono più poveri (ma non lo sono) e si incazzano.

Controesempio: il prezzo del pane sale e quindi aumentano i ricavi del panificio. Il proprietario (sempre persona onesta) divide parte di tali ricavi aggiuntivi coi suoi operai-panettieri. Badate bene: i salari aumentano, ma a causa dell’aumento del prezzo del pane, alla fine per gli operai-panettieri nulla cambia, perché possono comprare la stessa quantità di pane che compravano prima, ovvero non diventano più ricchi. Però gli operai si sentono più ricchi (ma non lo sono) e sono contenti.

Un’inflazione moderatamente positiva, quindi, è più facilmente gestibile: come si evince dagli esempi sopra, in nessuno dei due casi gli operai (e qualunque salariato/stipediato al loro posto) sta meglio o peggio di prima, però nel primo caso si incazzano, nel secondo sono contenti. Se l’uomo fosse perfettamente razionale, la reazione giusta sarebbe l’indifferenza; ma dato che non lo è, in quanto non perfettamente informato, reagisce secondo natura.

Dunque: un’inflazione moderatamente positiva è normale e “sana”. E noi in questi dieci anni l’abbiamo avuta.

Ma allora perché siamo diventati più poveri? Le risposte sono tante, semplifichiamo.

Nel 2001 eravamo 56995744, oggi siamo presumibilmente più di 60 milioni (circa +5%). Nel 2001 la torta (il PIL) che gli italiani si spartivano era, diciamo, di 100 tonnellate. La torta in questi dieci anni è cresciuta molto poco, circa dello 0,5% l’anno, diventando di 105 tonnellate (poco più del 5%). A conti fatti, la fetta di torta che in media spetta a ogni italiano è oggi leggermente più piccola di quella che gli spettava nel 2001. Ma se non è colpa dell’inflazione (che, ribadisco, è stata normale), come accidenti è successo tutto questo? Come mai siamo più poveri?

Le risposte sono tante, come dicevo: vediamone alcune.

Scarsa crescita e produttività morta. In primo luogo, ‘sta benedetta torta deve crescere, ma noi veniamo fuori da dieci anni in cui nulla si è fatto per la crescita e anzi la si è azzoppata facendo esplodere la spesa pubblica sotto i governi Berlusconi e tagliando tasse a casaccio (Berlusconi, per esempio, eliminò l’ICI ai ricchi, fra cui sé stesso, creando una voragine nei conti dei comuni che oggi Monti deve tappare reintroducendo l’ICI per tutti, anche ai meno ricchi, che non la pagavano più grazie a Prodi). Discorso simile per la produttività (per la sua crescita), che è morta, cremata e sparsa nel Sahara da diversi anni. Il salario dovrebbe essere legato in primo luogo a questi fattori, e non brutalmente all’inflazione (e in Paesi che stanno meglio di noi è già così).

Cattiva redistribuzione del reddito intragenerazionale. Negli ultimi dieci anni la parte ricca della popolazione italiana è diventata più ricca (cioè le spetta più torta rispetto al 2001), mentre la parte povera (ma anche quella mediamente ricca) è diventata più povera. Questo, oltre ad essere ingiusto, è anche inefficiente: come ha scoperto Ernst Engel, tutti gli uomini spendono più o meno le stesse quantità di denaro in percentuale per medesime classi di beni, solo che chi ha più soldi di solito risparmia di più, e in un periodo di stagnazione come quello che stiamo vivendo, risparmio significa tesaurizzazione delle ricchezze, il che non stimola l’economia, non crea posti di lavoro.

Cattiva tassazione. Oggi il carico fiscale ricade principalmente sul lavoro: ciò significa che se Tizio, operaio, guadagna 30000 euro l’anno e paga TOT di tasse, Caio, che a parità di condizioni, svolgendo un’altra attività, guadagna lo stesso, paga meno tasse: ad esempio se Caio ha un condominio, ne affitta gli appartamenti e guadagna 30000, alla fine paga di tasse (se le paga) la cedolare secca del 21%; se Caio si limita a gestire un suo capitale, alla fine pagherà (al massimo) il 20% [attenzione, però, non cominciamo a sparare lotta di classe: a Caio molto probabilmente spettano meno diritti rispetto a Tizio, specie in materia previdenziale, oppure non avere le detrazioni che invece spettano a Tizio]. Tizio invece paga su una parte di quei 30000 il 23%, su un’altra parte il 27%, su un’altra il 38%. Lo dico (in parte) contro i miei interessi, ma c’è da fare una “democrazia dei redditi”: chi guadagna uguale, paga tasse uguale (e ha diritti uguale – Caio pagherà le tasse di Tizio, ma avrà le stesse detrazioni e pensione di Tizio, a parità di condizioni → ceteris paribus).

Elevata evasione fiscale. Questa è facile: ci sono servizi universali forniti a chiunque dallo Stato grazie alle tasse. L’evasore viene curato dal Servizio Sanitario Nazionale, ma quelle cure gliele paga qualcun altro, nella fattispecie il lavoratore.

Cattiva redistribuzione del reddito intergenerazionale (1). Dal 2010 circa fino al 2030 andranno in pensione i baby-boomer, cioè un sacco di gente. Se le cose rimangono come sono, lo Stato dovrà pagare un’enormità di pensioni a causa di quest’onda demografica anomala fino al 2040-2050 e forse più. Tralasciamo per carità di patria le patologie tipo i baby-pensionati, ovvero chi per un motivo o per un altro ha lavorato per vent’anni e starà in pensione per quaranta e oltre. Oggi, a causa di un ingiustissimo dualismo nel sistema di calcolo della pensione, a parità di lavoro, c’è Tizio, over 50, che prende, diciamo, 2000 al mese, e Caio, over 40, che prende 1000. Il primo è agganciato al sistema retributivo, cioè la pensione è pari a una percentuale dei suoi ultimi stipendi, a prescindere o quasi dai suoi contributi (potrebbe avere versato 1 euro nei primi 25 anni di lavoro e 1000 negli ultimi 10, per esempio, oppure 1000 da sempre, ma sempre 2000 di pensione prenderebbe); il secondo è agganciato al sistema contributivo, cioè la sua pensione è calcolata in base ai contributi versati. Ne consegue (ceteris paribus) che Tizio finisce il suo serbatoio di contributi prima di Caio (pare che chi lavori per 35 anni, al momento, accumuli contributi solo per 10-15 anni), però la pensione, essendo diritto acquisito, gli tocca finché non crepa. Chi ci mette la differenza? Chi paga la pensione a Tizio prima e a Caio poi se questi campano (e campano) più dei contributi versati? Ovvio: chi lavora, con le tasse e i propri contributi. Questo è profondamente ingiusto: la pensione è un diritto acquisito, ma non lo è l’importo della pensione stessa, che lo Stato può cambiare, e deve farlo per una questione di giustizia fra generazioni: troppi vecchi oggi campano da nababbi in parte a spese degli adulti lavoratori, ma gli adulti che andranno in pensione nei prossimi anni camperanno TOTALMENTE sulla pelle dei giovani e giovanissimi di oggi (e i vecchi di cui sopra potrebbero essere ancora vivi!), e a questi la pensione potrebbe non spettare proprio. Sia contributivo per tutti e si taglino le pensioni più elevate (anche, come sta facendo Monti pare, eliminando l’indicizzazione all’inflazione – una delle cause della stagflazione degli anni Settanta, se ricordate). Ma non è finita.

Cattiva redistribuzione del reddito intergenerazionale (2). Abbiamo detto che le pensioni oltre un certo importo vengono pagate dallo Stato attraverso le tasse. Ma chi le paga ‘ste tasse? I lavoratori, attraverso le aziende. E questo comporta un’altra differenza sostanziale fra generazioni: ci sono lavoratori con contratti di ferro e contributi previdenziali. Poi ci sono i giovani. Abbiamo detto che ogni pensionato aggiuntivo è un peso che grava sul lavoratore attraverso le imprese: infatti, dato questo peso, l’impresa potrebbe decidere di non sostituire questo pensionato assumendo un giovane, perché gli costerebbe troppo; oppure potrebbe assumerlo con un contratto precario (e ciò significa poca o punto pensione). Ciò significa che la nostra elevatissima (e crescente) spesa pensionistica non solo grava su chi lavora, ma pure su chi vorrebbe lavorare, ma non può farlo perché c’è un pensionato che gli mangia lo stipendio potenziale in tutto o in parte. Questo crea disoccupazione, incertezza verso il futuro, gli investimenti non vengono stimolati, i giovani sono costretti ad offrire i propri cervelli all’estero e questo, in ultima analisi, deprime la crescita economica: ritorniamo quindi al primo punto in questo immenso circolo vizioso.

Moltissimi altri problemi dovrebbero essere affrontati, ma sono già oltre le 2100 parole. Spero di avere reso abbastanza l’idea, quindi arriviamo alle conclusioni.

Siamo diventati più poveri, ma non è colpa dell’inflazione (né dell’euro, come dicono i male informati), di evidenze in questo senso non ce ne sono. Siamo diventati più poveri perché la crescita è scarsa, gli sprechi sono troppi e le tasse troppo alte (e di questo di prove ne abbiamo a sufficienza, mi pare).

La ricetta per uscirne è quella tedesca degli anni Settanta: rigore fiscale (anche attraverso la cessione parziale della sovranità fiscale), forti riforme (specie quelle a costo zero, come le liberalizzazioni) per aumentare la crescita, più equa redistribuzione del carico fiscale. I tedeschi fecero sacrifici negli anni Settanta, ma furono ampiamente ripagati pochi anni dopo fino ad oggi; gli italiani non li fecero, e stiamo ancora pagando per quella scelta. Scegliamo il sentiero giusto questa volta.

Infine il caveat: la Banca Centrale Europea non ha ereditato tutto lo statuto della Bundesbank. La BCE non è una vera banca centrale, per cui servono nuovi trattati che prevedano almeno queste due cose:

Tutto questo prescinde dalle eventuali megapatrimoniali agitate dai masanielli con la barba o con la zeppa: la vendetta una tantum non risolve niente, servono interventi di struttura come quelli descritti sopra. C’è da stringere i denti e rimboccarsi le maniche, ed essere pronti a far sentire la forza della ragione contro berluscones e membri delle numerose e irragionevoli caste italiane che vampirizzano il Paese.

La strada che Monti sembra aver tracciato (ne sapremo di più fra pochi giorni) sembra essere quella giusta. L’alternativa è affondare, e ricordatevi che berluscones e membri delle caste posseggono elicotteri e ville all’estero per scampare allo tsunami.

Photo credits | Classical Numismatic Group, Inc. , CC-BY-SA 2.5

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