I nuovi crolli delle borse di questi giorni hanno indubbiamente cause diverse: oltre alla crisi del debito sovrano che grava sui PIIGS e anche sulla Francia, ci sono segnali sempre più forti circa il ritorno in recessione nei prossimi mesi. Il bagno di sangue che ieri ha sconvolto i mercati finanziari ha però un nome ed un cognome, ed è George Papandreou, premier della Grecia, che ha buttato nel mar Egeo in pochi minuti trattative durate mesi.
Con una mossa a sorpresa e non concordata neppure con il proprio partito, Papandreou ha annunciato di volere indire un referendum consultivo presso il popolo ellenico per chiedere se approvare o meno il piano di salvataggio. Una mossa certo in linea con la culla della democrazia, ma che rappresenta, in ultima analisi, la volontà di Papandreou di lavarsi le mani delle proprie responsabilità, dimostrando ancora una volta che la classe politica europea è davvero quanto di più mediocre possiamo avere.
Davanti a Papandreou, infatti, c’erano due strade: la prima era approvare il piano di salvataggio e tentare ancora di evitare il fallimento tecnico della Grecia (e di conseguenza ottenere un pessimo giudizio da parte degli elettori, almeno nell’immediato); la seconda era respingere tale piano per riguadagnare consenso presso l’elettorato (e di conseguenza ottenere un pessimo giudizio da parte della Storia di lungo termine, per avere scatenato l’apocalisse).
Invece di decidere, Papandreou, ormai in evidente tilt e con una maggioranza ridotta a due soli voti in più, ha preferito lavarsene le mani. Il referendum, che secondo la Costituzione greca deve essere approvato prima dal Parlamento (e non è detto che succeda, già in queste ore la boutade si sta sgonfiando), farebbe ricadere sul popolo greco “la colpa” di avere scatenato la tempesta perfetta, e di conseguenza una grave crisi che certo non colpirà solo le banche, ma anche e soprattutto gli operai, gli impiegati, i pensionati, e non solo quelli greci, ma di tutta Europa.
Il default greco e l’ovvia uscita dall’euro avrà due generi di conseguenze: il Paese già oggi ha le casse vuote e sopravvive grazie ai prestiti internazionali (gli stessi prestiti che tengono a galla anche l’Islanda, nonostante la leggenda a riguardo). L’austerità bocciata dal referendum, dopo essere uscita dalla porta rientrerà aggravata dalla finestra, e stavolta non ci sarà la moneta unica a fare da scudo dalle fluttuazioni del cambio e delle materie prime (di cui la Grecia, come l’Italia, è poverissima).
In secondo luogo potrebbe scatenarsi l’effetto domino in altri Paesi. E, a dispetto di quanto si poteva pensare appena pochi mesi fa, la successiva tessera del domino è l’Italia. A dimostrazione di ciò, ieri lo spread BTP/Bund ha toccato un nuovo record a 455 (quello fra Bonos spagnoli e Bund è arrivato a 385). Ma c’è di peggio. Per una manciata di minuti il rendimento del titolo decennale e quello del quinquennale si sono ritrovati appaiati a 6,30%, mentre il titolo a due anni si è portato ad appena 55 punti base dagli altri due, segnalando un appiattimento della curva dei rendimenti che fa pensare tutto il male possibile, specie fra il 2013 e il 2016.
Come se ne esce? Innanzitutto senza colpi di testa come quello di Papandreou. In secondo luogo, come affermava Roberto Perotti lunedì sera sera a L’Infedele: con tagli alla spesa pubblica, aumenti delle entrate (a cominciare da sprechi, corruzioni ed evasioni) e stimoli per la crescita. I primi spettano ai governi, che lo vogliano o meno (è finito il bengodi e il tempo della crisi psicologica); i secondi pure, ma in questo caso, oltre alla leva fiscale, appare sempre più impellente il bisogno del ricorso alla leva monetaria, ovvero di una Banca Centrale Europea che tagli i tassi di interesse, riportandoli almeno all’1%, visto che una fiammata inflazionistica non appare essere nei prossimi stati del mondo, e che in ogni caso, entro un limite del 5%, l’inflazione può aiutare Stati, imprese e famiglie a terminare più in fretta il processo di deleveraging volto a ripulire i bilanci dai debiti e quindi a ripartire.