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E il burqa

Aggiornato dopo la pubblicazione

In questi giorni si sta parlando dei divieti che si vorrebbero imporre alle donne che vogliono andare in luoghi pubblici o aperti al pubblico indossando un velo islamico. Devo dire che non sono un esperto in materia, ma qualche considerazione logica (e per quanto posso giuridica) la posso fare, a partire dall’articolo di Repubblica, che mi pare un capolavoro di approssimazione: la giornalista con il burqa, infatti, per evitare di finire nei guai, evita pure di fare il suo lavoro, perché scappa al primo accenno di difficoltà, facendoci poi credere che la colpa siano degli altri razzistoni (esempio: [l’addetta in biblioteca chiede di riconoscere chi vuole consultare libri e avere accesso a internet, come vuole la legge e quindi spiega] “«Voglio dire che deve mostrare il viso, togliere il velo. Se vuole chiamo una addetta donna, per sua riservatezza». Sono ormai le 16 e spiego che tornerò un’altra volta, senz’altro.” Voi magari non ci vedete niente, io però, interpretando quella frase alla luce del resto dell’articolo (nell’incipit già è chiaro che: «vestiti in quel modo non si fa molta strada») ci vedo l’intento di dire: avete visto come mi hanno trattata ‘sti razzisti?. Allora due parole, spero ragionevoli, le voglio spendere.

Per quali motivi si dovrebbe vietare il velo (e intendo con questo termine anche e soprattutto quello che lascia il volto scoperto – forse impropriamente, intendo con “velo” lo hijab)? Mi riferirò ai motivi (non importa se stupidi o validi) di cui ho sentito parlare in varie discussioni nel corso degli anni.

Si può iniziare con il dire: per preservare la laicità dello Stato o per la dignità della donna. Il che non ha alcun senso, a mio avviso: a questo punto, per preservare il buon costume si potrebbe pure arrivare ad imporre alla gente come vestirsi. Per salvaguardare la dignità della donna, si deve impedire loro di vestirsi anche in un certo modo. Ad esempio, da migno*ta, perché sarebbe degradante, secondo la morale di qualcuno. Ma, sentivo in una puntata di Nip/Tuck, questa è la generazione delle t*oie, e in tante van vestite piuttosto scoperte, ed è una loro libera scelta, una riaffermazione dell’emancipazione, altro che perdita della dignità. E allora che facciamo? Ripristiniamo lo Stato etico? Ma ammettiamo che mi vada bene: bisogna pure considerare il fatto che un divieto del genere non può gravare solo sulle donne islamiche, perché sarebbe una discriminazione irrazionale. Si vuole vietare il velo, espressione della libertà religiosa? Allora va vietato anche quello delle suore, per dire. Nulla di nuovo: se si vuole vietare qualcosa, bisogna farlo in modo razionale. Vietare alle sole auto straniere di andare a 200 all’ora davanti alle scuole, ma permetterlo alle auto italiane vi pare sensato?

Passiamo al motivo successivo: vietare niqab e soprattutto burqa per ragioni di sicurezza pubblica, poiché sotto di essi la donna potrebbe nascondere armi o esplosivi. Ma anche qui ci sono ragioni di irrazionalità: una qualunque donna, o anche un uomo, potrebbe nascondere armi o esplosivi sotto i vestiti. Farlo sotto un velo o sotto una gonna non mi pare far troppa differenza. Anzi, forse è più facile, per una terrorista, travestirsi da suora, entrare nel Duomo di Milano, passare indenne la perquisizione (accidenti, vorresti fare un’ispezione anale ad una suora?) e farsi esplodere.

Insomma, fin qui siamo nell’irrazionalità più completa, nella paura: non è vietando il velo che si evitano i kamikaze, bensì implementando adeguate misure di sicurezza che scovino gli esplosivi sotto tali veli, sotto gli abiti delle suore, nei passeggini e sotto la finta pancia di un signore qualsiasi.

C’è un motivo valido, però, che merita attenzione, ovvero quello dell’identificazione. I documenti di riconoscimento servono ad associare un volto a dei dati anagrafici, ad una identità. Non si può pretendere di andare in tribunale con un documento in mano, e chiedere atti processuali relativi alla persona nel documento come se niente fosse: quel documento potresti averlo rubato, sempre che non sia falso, quindi io devo vedere che tu sei quello nella foto e non un altro. E lo stesso vale anche altrove (ad esempio all’università, per un esame, all’anagrafe, eccetera). In questo caso non c’è traccia di irrazionalità: io rifiuto di darti i documenti o di registrarti l’esame perché non so con chi sto parlando. Per me, sotto quel burqa, potrebbe esserci una giornalista ficcanaso che vuole mettere il becco su carte che legalmente non può guardare; sotto quel burqa potrebbe esserci la sorella professoressa di diritto al posto dell’altra sorella, quella che ancora si deve laureare.

Dunque: vietare il velo nei luoghi pubblici o nei luoghi aperti al pubblico non ha nessun senso, a maggior ragione se si vietano solo quelli di alcune religioni e quelli di altre no. Ma ha invece senso il fatto di dover essere identificabili, all’uopo, ma comunque nulla giustifica il divieto. Ora (e qui scatta la mia ignoranza) non si potrebbero adottare misure che agevolino il riconoscimento della persona sotto il velo, affidando l’operazione ad una donna? Ecco, forse solo di questo si può razionalmente discutere.

Tutto il resto è mera espressione del sonno della ragione. E il sonno della ragione, lo abbiamo ricordato ieri, Giornata della Memoria, genera mostri come i campi di concentramento e lo sterminio di massa.

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