Termometro Finanziario: Draghi teme per la crescita, ma c’è spazio per un taglio dei tassi

Per Termometro Politico

Settimana al ribasso per i maggiori mercati europei, che non riescono a spazzar via i timori relativi alla crescita. Per ora i ribassi possono essere ritenuti mere prese di profitto da ricollegarsi al fatto che i sondaggi denotano una fase di euforia che, solitamente, precede e segue l’inserimento sul mercato degli ultimi arrivati, detti altrimenti i polli da spennare. In parole povere, il mercato avrebbe raggiunto il picco o è comunque prossimo a farlo. Non si può, dunque, che consigliare prudenza.

I timori che il mercato abbia raggiunto (per la terza volta nell’ultimo decennio o giù di lì) il proprio picco sono corroborati dalle parole di Mario Draghi, che in settimana ha ribadito che vi sono ancora grossi pericoli per la crescita. D’altro canto il tasso di inflazione potrebbe subire pressioni al ribasso, e ciò potrebbe permettere alla BCE di tagliare i tassi di interesse. Il mercato ha dato credito a queste parole provocando una forte discesa dell’euro contro il dollaro, da 1,36 a 1,33.

Ad appesantire ancora di più il quadro sono gli spread: in Spagna lo spread col Bund tedesco, spinto dagli scandali di corruzione oltre che dal deteriorarsi del quadro macroeconomico, spinge verso quota 400, mentre quello italiano sta risalendo rapidamente e in settimana ha sfiorato quota 300. Tra i motivi, oltre ai problemi economici che vedono una crescita del PIL reale pro capite negativa dal 2000 ad oggi, vediamo esservi anche una campagna elettorale all’insegna del “chi la spara più grossa” e, di conseguenza, uno scenario post-elettorale fortemente frammentato, cui si aggiungono gli scandali bancari e quelli di corruzione, che in settimana hanno colpito l’ENI.

In agenda per la settimana prossima troviamo pochi eventi macroeconomici rilevanti. All’inizio dell’ottava avremo emissioni di titoli sovrani a breve e medio termine: lunedì toccherà ai Bubill tedeschi a 6 mesi e i BTF francesi a 3, 6 e 12 mesi, martedì andranno in asta Letras spagnoli a 6 e 12 mesi e i BOT italiani a 3 e 12 mesi, mentre mercoledì toccherà agli Schatz tedeschi a 2 anni e i BTP italiani a 3 anni.

Sempre mercoledì conosceremo la produzione industriale in Eurozona, e le attese vedono un piccolo aumento dello 0,2% su base mensile, contro il -0,3% precedente. Conosceremo poi le vendite al dettaglio mensili USA, previste quasi ferme.

Giovedì sarà giornata di PIL (stime preliminari) per vari Paesi europei. Inizierà la Francia, che dovrebbe segnare un trimestre in calo a -0,2%, seguirà la Germania, il cui PIL su base trimestrale è atteso a -0,5%, quindi toccherà all’Italia, che dovrebbe approfondire la propria recessione tecnica con un -0,6% dopo il -0,2% del trimestre precedente (-2,3% su base annua). Finirà il giro l’Eurozona, il cui PIL su base trimestrale dovrebbe calare dello 0,4% dopo il -0,1% precedente (confermando la recessione tecnica). Negli USA i soliti jobless claims dovrebbero rimanere intorno alle 360mila unità.

La settimana chiuderà, per l’Europa, con l’inflazione spagnola, attesa ovviamente in tracollo a -1,4% e la bilancia commerciale italiana, per la quale gli analisti prevedono un calo dell’attivo a 2,22 miliardi (calo che, va ricordato, è probabilmente dovuto più a un calo dell’import che ad un aumento dell’export, il che è tutto fuorché salutare). Negli USA la produzione industriale dovrebbe confermare il tasso di crescita dello 0,3% su base mensile.

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4 Comments

  1. Non posso vedere il video per mancanza di tempo. Il tuo riassunto, tuttavia, mi pare abbastanza corretto. Per come la vedo io, la divisione mondiale del lavoro non è fallita, è fallita solo la parte che teorizzava la “superiorità” dell’Occidente. Se non investi in K, la Cina ti raggiunge e ti supera, e nel lungo periodo sei destinato a diventare tu la fabbrica del mondo, mentre i tuoi salari vengono erosi. Se poi invece di prendere la globalizzazione per le corna cerchi di combatterla come a voler fermare uno tsunami con uno stuzzicadenti, allora sei destinato a morire.

    In parole povere, dobbiamo trovare il nostro posto in un mondo in cui l’Occidente non può più ritenersi superiore (noi gli aiFòn, voi le banane). Se investiamo in capitale, forse l’impatto del cambiamento non sarà così traumatico, ma se pensiamo di poter mantenere l’attuale livello dei salari producendo scarpe e pummarola con metodi “tradizionali” passeremo un gran brutto periodo, e non basterà tutto il credito del mondo per tenerci a galla.

    1. Grazie per la risposta.

      Tuttavia, gli “aiFòn” sono già prodotti dalla cinese Foxconn.
      La Foxconn ha già rilocalizzato alcuni stabilimenti nelle zone più interne del territorio cinese, dove i salari sono più bassi e gli incentivi statali più alti. La Cina della Cina. Tra l’altro progettano di aprire in Brasile, dove evidentemente il lavoro costa pochissimo.

      In Occidente, per quanto possiamo investire in R&D, poi finisce sempre che la fabbrica che costruisce la nostra meravigliosa invenzione la apriamo in Cina o giù di lì, dove gli operai sono pagati 3000 yuan al mese per lavorare dieci ore al giorno domeniche incluse.

      L’Occidente, per non soccombere, dovrebbe riconvertirsi verso chissà quali fantastiche tecnologie (o vivere di finanza come gli Inglesi), abbandonare ogni tipo di produzione e campare di genialità allo stato puro.
      E’ un’utopia delle più folli.

      Sì, abbandonare ogni produzione, compresa quella agroalimentare tradizionale.
      Ad esempio, la Cina risulta essere il primo produttore mondiale di pomodori. Dai 22.3 milioni di tonnellate del 2000 è passata ai 45.3 del 2009. L’Italia, sesto produttore mondiale, nello stesso lasso di tempo è scesa da 7.6 milioni a 6.9. Nello stesso periodo, la Cina ha quasi raddoppiato la resa per metro quadrato (da 2.57 a 4.93 kg/m2) mentre l’Italia è passata dal 5.5 ad un misero 5.55.
      Non va meglio per gli agrumi, altro prodotto tipico del mediterraneo: quelli di importazione cinese costano molto meno, 6.3 euro (trasporto escluso) contro 12.
      Un bracciante agricolo spagnolo riceve (in nero) quattro euro l’ora per la raccolta, un costo non ulteriormente comprimibile, a meno di non voler tornare al servaggio della gleba.
      Dopo la distruzione di interi comparti industriali, è sensato desertificare persino il settore primario in nome della globalizzazione ?

      Complimenti per il tuo blog.

      1. Gli iPhone sono assemblati in Cina, ma sono progettati negli USA con componenti da produttori sparsi in giro per il globo (non sono aggiornato, ma ricordo di aver letto di schermi della giapponese Sharp, di vari componenti della coreana Samsung, l’accelerometro è un brevetto italiano).

        Scriveva l’Economist che un iPhone 4 costava 560 dollari al consumatore: di questi 14 (7 in costi e 7 di margine) rimangono a Foxconn, 178 se ne vanno in componenti, mentre 368 tornano ad Apple.

        Questo è l’esempio di divisione internazionale del lavoro.

        Passiamo alla teoria: nella produzione di un prodotto vi sono fasi labour-intensive e altre skill-intensive (o capital-intensive). Queste ultime sono quelle a maggior valore aggiunto. Per fare le prime non occorrono grandi doti intellettuali, a differenza delle seconde. L’economia della globalizzazione prevede che le prime vadano delocalizzate laddove il lavoro costa meno (in Cina) mentre le altre vadano mantenute in sede. Apple fa esattamente questo, e non è l’unica.

        Ergo i casi sono due: o l’Occidente investe per mantenere questo vantaggio oppure non lo fa. Nel primo caso c’è speranza di mantenere le fasi skill/capital-intensive di una produzione nel Paese d’origine (e quindi mantenere il proprio tenore di vita), nel secondo il Paese viene raggiunto e superato dalle economie emergenti (e necessariamente deve abbassare le proprie aspettative).

        Questo, si badi bene, non vale solo nei settori tecnologici. Vale pure per la coltivazione dei pomodori, e hai due strade: o ti inventi dei pomodori di lusso o investi in capitale e produci di più a un costo inferiore.

        È una cosa che in Italia non si è ancora capita: non puoi pensare di competere nel mercato globale con la zappa, mentre là fuori si ara il terreno con trattori automatici guidati col GPS. Anzi, l’agricoltura sta diventando sempre più tecnologica.

        Se vuoi fare l’operaio non specializzato preparati ad avere uno stipendio cinese, perché altrimenti la tua fabbrica chiude e se ne va in Cina e Brasile; se vuoi fare il contadino come ai tempi del nonno, preparati a non vedere un soldo bucato, perché i pomodori cinesi ti asfalteranno.

        L’unica via di scampo è quella: investire in skill e capitale, perché sono gli unici fattori di produzione che possano garantirci il mantenimento di questo tenore di vita.

        Concludo: in Italia industria e agricoltura sono in dissoluzione perché non si investe in quei fattori. Siamo pieni di piccole e medie imprese che non vogliono crescere, che non vogliono fondersi o almeno consorziarsi per fare ricerca e sviluppo, e che quindi non avranno mai soldi per assicurarsi prodotti ad elevato valore aggiunto. Abbiamo operai che hanno le stesse capacità di un operaio cinese ma che vogliono essere pagati dieci volte tanto. Abbiamo uno Stato che invece di mandare al diavolo quelle PMI senza aspirazioni le sostiene (soffocando e togliendo risorse a quelle che vogliono crescere), che invece di lasciar fallire imprese stracotte le sussidia, che tutela il posto di lavoro invece del lavoratore.

        Ci servono imprese ambiziose che si rendano conto che il mondo cambia continuamente, non imprese che vorrebbero produrre per sempre con gli stessi metodi. Ci servono operai, impiegati, contadini, persone che vogliano continuamente investire su se stessi, non gente che “ho trovato lavoro come tappatore di barattoli, farò questo per tutta la vita” e poi si stupiscono se un robot o un cinese li sostituisce. Ci piaccia o meno la realtà è questa.

        Ed è molto tetra, per l’Italia, che continua a perdere troppi treni di sviluppo.

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