Fare o non Fare per Fermare il Declino (parte 1)

L’analisi delle dieci proposte di Fare per Fermare il Declino (d’ora in avanti solo Fare) è un’operazione abbastanza complessa poiché si tratta, fra quelli che ho avuto modo di leggere (purtroppo abbastanza sommariamente), di quello che spiega in modo più dettagliato cosa bisogna fare per raggiungere un certo obiettivo (che poi sia realistico, è un altro discorso).

È una proposta politico-economica ancorata nel terreno, il che, in un Paese costantemente radicato sulle nuvole, sui sogni e sulle scemenze populiste, la rende una proposta perdente in partenza. Giannino, Boldrin, Zingales e gli altri, quando imparerete che questo Paese vuole pane, ma soprattutto Balotelli?

Comunque, le proposte di Fare sono dieci, ognuna con un abstract, qualcuna con un approfondimento e poche altre con un approfondimento tecnico (che, avendo una vita, non ho avuto il piacere di analizzare con la dovuta calma, specie quelli sulla sanità: se qualcuno lo ha fatto e vuole correggermi, anche sotto forma di guest post, è il benvenuto). Possono piacere o meno (a me alcune piacciono, altre meno), ma la loro concretezza è fuori discussione.

In questo post si affrontano le prime quattro, le meglio approfondite. Per le altre, seguirà un altro post, in cui tirerò le conclusioni, anche in base alle osservazioni che vorrete lasciarmi sul sito e sui social network. Inutile dire che questo post non è un endorsement: è solo che per un economista questo programma è come il miele per le api.

Il primo punto del programma è la riduzione del debito pubblico, in parte attraverso una campagna di riduzione della spesa pubblica più forte rispetto a quella relativa al taglio delle tasse, e in grossa parte attraverso la vendita di patrimonio pubblico, sia immobiliare che mobiliare. In entrambi i casi il problema è il solito: con quali criteri si vende? Che cosa? E a chi?

Il primo problema, però, è: quando? Vendere un immobile o un’azienda di Stato oggi, con un mercato storicamente depresso, significa rischiare una svendita. Inoltre, un conto è vendere una caserma, un altro è vendere l’ENI: piaccia o meno, ma il compratore dovrà temperare l’interesse dell’azienda con quello del Paese (e non perché sia auspicabile o cose del genere, ma perché la politica nelle aziende di Stato ci ha messo le larve, e ne legheranno le politiche ancora per decenni). Inoltre mi incazzerei non poco se l’ENI o chi per essa venisse acquistata attraverso un levereged buy-out, ovvero compro l’azienda a debito e ne vendo certi pezzi per coprire tale debito. Astenersi Corporate Raider, insomma, ma non sono sicuro che Giannino, da sostenitore del liberissimo mercato qual è, abbia così tanto interesse a sapere chi sia l’acquirente.

Ad ogni modo Fare prevede che uno spezzettamento possa avvenire prima della vendita, il che è corretto dal punto di vista della cassa (solitamente i pezzi valgono più dell’intero). Questa serie di vincoli, però, rischia di deprimere il prezzo dell’asset, e dunque rendere l’obiettivo “debito al 100% del PIL” più arduo da raggiungere.

Infine c’è la domanda delle domande: chi cacchiarola se le compra le caserme?

Il secondo punto riguarda il taglio della spesa pubblica. È interessante segnalare questi paragrafi introduttivi:

Nel periodo 1990-2010 il Pil nominale è cresciuto del 121%, la spesa primaria del 152%; la maggior parte di tale aumento si è verificato nel decennio 2000-2010; principale responsabile di tale fenomeno è l’incremento della spesa previdenziale (cresciuta in termini nominali del 183%) mentre il resto della spesa è cresciuto del 132%, in modo significativamente superiore al Pil;

Si sottolinea poi che ci sono pochi spazi di manovra per i tagli alla spesa per il personale, e vorrei ben vedere: a parte che c’è un blocco del turnover in atto praticamente ovunque (chi va in pensione non viene sempre sostituito), è in vigore anche un blocco dei salari nominali, che di conseguenza sono in riduzione in termini reali. Nel programma di Fare troviamo tagli a stipendi e pensioni nell’arco della legislatura, ma vengono mitigati con tagli alle tasse (ad esempio, cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti, IRPEF per le pensioni fino a 2500 euro). Da notare poi che la spesa pensionistica crescerà comunque, a sottolineare che, nonostante i tagli (il maggiore fra i tagli proposti, in rapporto al PIL), siamo seduti su una bomba demografica. La spesa per redditi da lavoro dipendente e quella per altre prestazioni sociali non verranno toccate se non in modo marginale, preferendo colpire i consumi intermedi e i “varie ed eventuali” del bilancio pubblico. Forse sul lavoro dipendente si poteva tagliare un po’ sui redditi più (troppo) elevati: spero se ne parli nell’approfondimento tecnico.

Il taglio del 5% della spesa primaria in rapporto al PIL proviene soprattutto dalle pensioni (-2%) e dalla spesa per servizi generali, non comprensiva della spesa per interessi (-1,3%). Istruzione e protezione dell’ambiente non vengono toccati (ma ne viene auspicato l’aumento), mentre le altre voci di spesa sono colpite al massimo dello 0,7%, e in media dello 0,3% (come la sanità).

Non ci sono però solo tagli: è previsto un aumento della spesa per indennità di disoccupazione e a favore delle famiglie a basso reddito, ma se ne parla in altro punto.

Ad ogni modo, è il piano di taglio della spesa più coerente che abbia letto sinora.

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8 Comments

  1. Grazie dell’analisi, utilissima; inoltre condivido le tue perplessità su alcuni punti. Temo/credo che infine voterò Fare, nella speranza che prima o poi i maggiori partiti vengano contaminati da questo modo di fare politica basato su proposte più o meno dettagliate, invece che su vaghe carte d’intenti (o agende…). Ma come giustamente fai notare, è un’impostazione coraggiosa, ma probabilmente perdente.

    1. Sinceramente mi auguro che qualcuno ci finisca alla Camera, anche se temo colpi più teatrali che altro, alla Pannella.

      Ma almeno direbbero qualcosa di diverso.

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