Dopo Mirafiori l’Italia è ancora un Paese del primo mondo?

Per Diritto di Critica

L’accordo di Mirafiori nasconde insidie a lungo termine che possono essere potenzialmente fatali per l’Italia. Non si tratta soltanto delle questioni sindacali che, alla fine della ‘fiera mediatica’, sembrano essere l’unico problema: le criticità contrattuali ben esaminate da tanti analisti sono sì critiche, ma non fondamentali. C’è invece un altro aspetto dell’accordo, accennato su queste pagine, che riguarda la “cinesizzazione” del lavoro che l’accordo di Mirafiori pare voglia introdurre nel nostro Paese.

L’Italia soffre da decenni di problemi di competitività, problema aggravato dalla crescente globalizzazione. Marchionne vuole cambiare l’Italia inserendo nell’arena questo nuovo problema (e di ciò va dato merito), ma la soluzione che propone non pare essere all’altezza di un Paese moderno quale pare voglia essere l’Italia, almeno a parole: Marchionne infatti vuole rendere l’Italia come la Cina e non come, ad esempio, gli Stati Uniti.

Poniamo infatti che per produrre e vendere un’automobile (ma questo discorso vale per qualsiasi prodotto) occorrano quattro unità: ricerca e sviluppo (R&S), produzione dei componenti, assemblaggio e marketing. Ognuna di queste attività richiede abilità differenti: assemblaggio e produzione dei componenti richiedono significative capacità manuali; marketing e ricerca e sviluppo, invece, presuppongono sforzi in termini di capitale (cioè di investimenti) e di lavoro “intellettuale“.

L’apertura dei mercati e la globalizzazione hanno fatto sì che giungessero sul mercato mondiale del lavoro molte persone di scarse formazione, ma con braccia e mani adatte alla catena di montaggio: tantissime aziende hanno così cominciato a delocalizzare le attività più “povere” in Cina, Vietnam o Polonia, dove le persone hanno le stesse abilità degli operai italiani o statunitensi pur chiedendo salari infinitamente più bassi, permettendo così di mantenere nel Paese di partenza (Italia, Stati Uniti, eccetera) le attività più qualificate (R&S e marketing). Il problema è che per mantenere tali attività sono necessari investimenti pubblici (istruzione superiore, cioè soldi all’università) e privati (per la ricerca applicata). Mentre negli altri Paesi avanzati ciò è avvenuto e ha prodotto ricchezza e benessere, in Italia siamo ancora indietro. Gli investimenti pubblici, è cosa nota, sono bassissimi e la ricerca privata non si fa perché la dimensione media delle aziende italiane è troppo piccola per sostenerla.

Marchionne vuole fare ricerca in Italia? La risposta appare essere negativa: come ha scritto Giannini su Repubblica, nonostante le promesse giunte da Torino:

Nessuno ha ancora capito cosa ci sia nel piano-monstre Fabbrica Italia: quali e dove siano indirizzati i nuovi investimenti, quali e quanti siano i nuovi modelli di auto che il gruppo ha in programmazione, dove e come saranno prodotti.

Sembra invece che Marchionne voglia aumentare non la produttività dei fattori (cosa che richiede investimenti), ma solo la produttività del lavoro, accrescendo il lavoro degli operai, tagliando le pause o allungando i turni di lavoro fino alle assurde dieci ore. Per quanto riguarda l’Italia, dunque, Marchionne punta sulle attività meno complesse, in particolare la produzione dei componenti, che poi verranno assemblati a Detroit dove i lavoratori si sono già ‘piegati’.

Marchionne vuole dunque “cinesizzare” anche Detroit? No: in base agli accordi con il governo USA, la FIAT, per potere scalare Chrysler, deve “esportare” tecnologia in America, in particolare il motore FIRE e altre tecnologie a bassi consumi, e lo sta già facendo. Sono questi gli investimenti che Marchionne sta effettuando, perché non solo sono praticamente a costo zero, ma gli permettono anche di risparmiare i soldi necessari per completare la scalata: per arrivare al 51%, infatti, FIAT deve ripagare 7 miliardi di prestiti pubblici e deve farlo pure in fretta, perché quei prestiti generano un miliardo di interessi l’anno.

Le vie d’uscita paiono poche: vendere i gioielli come Ferrari e Alfa Romeo oppure, ma non necessariamente in alternativa, continuare con i tagli drastici. Il che significa trasformare gli stabilimenti italiani in cinesi e polacchi, oppure chiudere Mirafiori e/o Pomigliano entro pochi anni (perché questo è il piano di Marchionne: Chrysler compra la FIAT e delocalizza la produzione in Italia, se possibile).

L’Italia, insomma, sembra destinata a ritornare al punto di partenza, vale a dire il dopoguerra. I treni persi negli ultimi cinquant’anni, gli investimenti non fatti, i soldi sprecati riporteranno l’Italia ai tempi precedenti il miracolo economico, quando gli operai erano pagati un ‘tozzo di pane’ e non avevano diritti. Come in Cina.

La differenza, non da poco, è che le condizioni per ripetere il miracolo (uno per tutti, il basso costo del petrolio) non ci sono più. E sembra che la classe dirigente italiana che si appoggia a Marchionne da destra e da sinistra non voglia vedere il baratro che abbiamo davanti: o investiamo sul futuro o torniamo nel passato.

Siamo ancora un Paese del primo mondo?

Photo credits | DGTMedia

Se l’articolo ti è piaciuto, puoi incoraggiarmi a scrivere ancora con una donazione, anche piccolissima. Grazie mille in ogni caso per essere arrivato fin quaggiù! Dona con Paypal oppure con Bitcoin (3HwQa8da3UAkidJJsLRfWNTDSncvMHbZt9).

5 Comments

  1. So che non è così, ma dal tuo articolo sembra che tu voglia sottovalutare il problema della delocalizzazione. Mi spiego. Tu dici che a causa della globalizzazione le aziende delocalizzano la produzione, però conservano le strutture a competenza avanzata: ricerca, sviluppo, e gestione. Il guaio di FIAT è che invece vuole delocalizzare le attività avanzate (da un paese come l’Italia, che non investe in ricerca), e “cinesizzare” i lavoratori italiani. Spero di aver capito il tuo punto.

    Ora, in questo confronto, logica vuole che, essendo FIAT l’esempio negativo, gli altri, quelli che delocalizzano la manodopera, ma si tengono i tecnici ed i manager, sono gli esempi positivi. Al netto del caso FIAT, dunque, l’Italia dovrebbe investire in cultura e ricerca, perché per la manodopera contro i Cinesi non c’è gara: quindi cari Italiani, laureatevi e fare i ricercatori/manager. E chi la laurea non ce l’ha, o non ha la preparazione tecnica adeguata? Possiamo mai immaginare un popolo di dottori senza operai?

    Insomma, la FIAT, che fa macchine invendibili, tecnicamente superbe, ma perdenti sul mercato da anni, vuole schiavi anche qui. Male. Ma anche l’apertura dei mercati a paesi in cui non vigono le regole minime che ci sono da noi è male. Anche l’allargamento dell’Europa a paesi dalle economie più povere è stata un’operazione finalizzata a dare ad imprese e banche il modo di speculare con meno ostacoli sui bassi costi del lavoro che c’erano lì.

    In tutto questo, la politica, quella che si occupa delle persone e del benessere dei cittadini, sembra assente. I conti si fanno solo coi bilanci aziendali, con le casse delle banche, e con gli indici di borsa. Male, molto male.

    1. >logica vuole che, essendo FIAT l’esempio negativo, gli altri, quelli che delocalizzano la manodopera, ma si tengono i tecnici ed i manager, sono gli esempi positivi

      Non ho fatto valutazioni morali, ho solo detto qual è l’andazzo nel mondo globalizzato. Ci piaccia o meno, le cose vanno così.

      >quindi cari Italiani, laureatevi e fare i ricercatori/manager. E chi la laurea non ce l’ha, o non ha la preparazione tecnica adeguata? Possiamo mai immaginare un popolo di dottori senza operai?

      Non esiste solo la laurea, così come non è detto che si debba per forza fare l’operaio. Fatto sta che se uno si adagia ad avvitare bulloni, rischia di arrivare un cinese che lo fa come lui a prezzi inferiori, e finisce per soccombere. Se invece studi e ti specializzi per avvitare un certo tipo di bullone, il cinese ci metterà più tempo per raggiungerti (il discorso è più complesso, ma spero di aver mostrato il punto: si chiama formazione continua, ed è qualcosa che dovremmo metterci in testa o finiremo per soccombere tutti, laureati o meno. Io spendo un terzo del mio tempo, sonno escluso, per imparare qualcosa di nuovo).

      > la politica, quella che si occupa delle persone e del benessere dei cittadini, sembra assente. I conti si fanno solo coi bilanci aziendali, con le casse delle banche, e con gli indici di borsa.

      Come detto, non do alcun giudizio morale nell’articolo, né mi sento di darlo: darwinianamente, è un fatto naturale, e la natura è di per sé amorale. Si può dare un giudizio morale nei confronti della giraffa col collo corto che soccombe a quella che ha il collo lungo nei periodi di magra? Per me no.

      Ma noi siamo esseri umani, che tra le altre cose hanno inventato la politica, appunto. La politica deve intervenire per favorire quel processo di formazione continua di cui parlavo sopra, come già molti altri Paesi occidentali fanno, investendo in ricerca, certo, ma pure favorendo la nascita di centri di formazione professionale, sostenendo le biblioteche, dando una mano alle associazioni che vogliono liberare la cultura, come anche, in negativo, eliminando inefficienze e rendite di posizione come quelle relative a tanti ordini/caste professionali.

      1. Il mio era solo un appunto retorico: confrontando due comportamenti, e giudicandone uno pessimo (da un punto di vista sociale ed economico, non morale, sia chiaro!), l’altro di riflesso assume connotati meno negativi. E tale mi appariva leggendo il post.

        Il tuo commento ha chiarito meglio il tuo punto di vista, che condivido. E sottolineo che nemmeno io do giudizi morali: politici, forse, sociali, economici. La moralità non c’entra.

        In questa ottica l’allargamento europeo, o la globalizzazione dei mercati in barba alle regole, sono un danno alle strutture sociali perché invece di esportare norme e diritti in quei paesi, ne stanno importando le ingiustizie. E chi ci guadagna sono i grandi gruppi finanziari e le banche. I cittadini perdono. E questa non è una questione morale ma politica.

        E’ vero. La natura è spietata. E se la giraffa dal collo corto muore non possiamo farci niente. Ma se il collo corto fosse il mondo dei diritti, e quello lungo lo schiavismo e la dittatura della finanza, anche se il mondo avesse solo acacie altissime, dovremmo imparare a non soccombere, fino ad imparare ad abbattere gli alberi.

        L’economia non è come la natura: non si autoregola, non ha un equilibrio spontaneo, sano, giusto. Ed esattamente come dici tu, il ruolo della politica è proprio quello di mirare alla situazione migliore, dando al paese le risorse di cui ha bisogno per poter andare avanti senza dover rinunciare alle proprie conquiste.

Comments are closed.