Il miraggio del cambiamento: la speranza italiana in via di estinzione

Qualche sera fa si parlava dell’Italia di ieri e di oggi e delle meraviglie (politiche) degli USA. Discutendo di se era meglio morire democristiani o “forzitaliani” ((il termine non è in uso corrente per riferirsi al militante di Forza Italia, ma è efficace in questo contesto)), alla fine non sono riuscito a trattenere un «a questo punto, era meglio non nascere affatto». Un sintesi «brutta, ma efficace».

Una volta c’era la DC e le opposizioni di sinistra. Oggi c’è Forza Italia (e alleati) e le opposizioni di sinistra. Dicono che è cambiato tutto e non è cambiato niente: Andreotti, De Mita e Cossiga, fra gli altri, girano ancora a sparare vere e proprie puttanate, passatemi il termine. Negli USA, invece, presidenti e candidati del passato o spariscono dal primo piano (come John Kerry, qualcuno ne ha sentito il nome fino al 5 novembre?) oppure tornano alla ribalta per altri motivi (come Al Gore) ((Clinton è ritornato in gioco per la moglie e dopo la sconfitta di Hillary non si è potuto tirare indietro per ritornare sui propri passi e appoggiare Obama)).

C’è qualcosa che connota sempre la democrazia americana. È la speranza. Quando Bush è stato eletto nel 2000, tutti sapevano che sarebbe durato quattro, al massimo otto anni. Quando Clinton è stato eletto nel 1992, la stessa cosa. E così da George Washington in poi ((Unica eccezione fu Roosevelt, che ruppe questa regola a causa delle due crisi che si trovò ad affrontare, la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, e rimase al potere per quattro mandati)). Democratici, repubblicani o semplicemente persone che non li sopportavano, sapevano che un giorno sarebbe arrivato il momento di voltare pagina. Chi temeva che la presidenza Bush sarebbe stata un disastro poteva comunque guardare al futuro con speranza, perché dopo al massimo otto anni se ne sarebbe andato. Chi oggi teme la presidenza Obama sa già che finirà entro e non oltre otto anni, e quindi potrà sperare in un futuro diverso.

Ogni quattro o otto anni gli USA hanno la possibilità di voltare pagina. Ogni quattro o otto anni tutti possono sperare in un futuro migliore, rivoluzionare tutto e scegliere un presidente un po’ più a destra o un po’ più a sinistra (“americanamente” parlando).

E in Italia?

Noi da sessant’anni intervistiamo le stesse persone. Per cinquant’anni non c’era bisogno di leggere i giornali per sapere chi avrebbe vinto le elezioni, perché tanto la DC nel governo c’entrava sempre. Un po’ con l’appoggio della destra, un (bel) po’ con quello dei socialisti, magari con l’astensione dei comunisti, se la necessità lo richiedeva, ma la DC era sempre lì, e con lei i suoi gruppi dirigenti, le stesse persone, almeno fino alla morte di questi ultimi. Stessa cosa anche per gli altri partiti, sia chiaro.

Poi si scopre Tangentopoli, si scopre che questa situazione era una porcheria da record. Gli italiani, che fino ad allora guardavano alla politica senza speranza (che cosa vuoi sperare, se in Parlamento ci andavano sempre gli stessi?), vedono i partiti disgregarsi da un giorno all’altro: PCI, PSI, DC, MSI, le sigle storiche spariscono. Ne nascono di nuovi, quasi quasi sembrano cambiare anche i gruppi dirigenti, le persone. Vedono Berlusconi, il nuovo, la speranza, e lo votano, in buona e buonissima fede.

Gli italiani riassaporano la speranza che qualcosa possa cambiare. E invece…

E invece niente. Berlusconi cade dopo varie porcate. Nuove elezioni, arriva Prodi, si entra in Europa ma niente più. Poi D’Alema e il disastro delle riforme che non riformano niente quando non fanno danni. Poi di nuovo Berlusconi e altre porcate. Poi di nuovo Prodi, che non riesce a fare quasi niente (a parte un po’ di risanamento al bilancio). E adesso di nuovo Berlusconi, e altre porcate.

E non se ne intravede la fine. Di qua Berlusconi che vorrebbe campare e governare (il tutto nel suo interesse) fino a 120 anni. Di là Veltroni che pure ha perso le elezioni ma non se ne vuole andare. E se pure se ne andasse, chi verrebbe scelto alla guida del partito? D’Alema? Fassino? Esiste un membro del PD in grado di reggere il partito che non sia in politica da più di dieci anni? ((Per fare un paragone che tanto piace al PD, Obama si candidò per la prima volta al Congresso federale nel 2000, e fu eletto solo nel 2004, per diventare presidente nel 2008)) Probabilmente sì, esiste. Il problema è che prima di lui/lei ci sono gli “anziani”, i D’Alema, i Fassino, i Letta, le Bindi e tutta gente che ricordo con i miei occhi di bambino, a richiedere la poltrona di segretario.

Ovunque guardi non vedi la fine. Questa è la differenza fra una democrazia e una pagliacciata. La politica deve guardare al futuro, e il futuro si alimenta di speranza. Negli Stati Uniti ogni persona può a buon diritto sperare di voltare pagina, di rinnovarsi fra al massimo otto anni, perché i partiti sono solo macchine elettorali, non contano praticamente niente nella politica vera. In Italia, invece, vedere sempre la stessa gente non ci fa sperare in un bel niente. Dopo dieci anni ti ritrovi Prodi al governo. Dopo quindici, Berlusconi. I partiti comandano, i segretari decidono chi deve andare in Parlamento e come i parlamentari debbano votare. In Italia metà dei politici ha più di 71 anni, all’estero in media uno su tre. L’esperienza va bene, ma a tutto c’è un limite, troppi anziani creano un tappo che blocca il ricambio generazionale. Me ne rendo conto ogni volta che parlo con persone più anziane di me, e mi incazzo, protesto, non ci voglio stare a vedere simili porcherie con qualunque governo di qualunque colore. E la risposta di questi anziani, 40, 50, 60enni è sempre la stessa, disarmante e senza speranza.

«È sempre stato così».

Forse sono uno stupido idealista, forse sono ancora giovane, ma la speranza del cambiamento non è ancora morta.

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