La luce in fondo al tunnel

Qualche tempo fa avevo scritto un commento su un blog di un promettente ragazzo di primo liceo il mio parere sul prezzo del petrolio (all’epoca volevo solo fare didattica e aggiustare il tiro delle sue affermazioni, ovviamente grezze a causa dell’età, ma giustificabilissime). Il ragazzo, in sintesi, diceva che la colpa dei rialzi era da addebitarsi all’OPEC. Riporto di seguito il mio commento perché lo ritengo utile, visto che spiego in termini semplici alcune cose un po’ complicate:

Nell’OPEC non c’è solo l’Arabia Saudita. Attualmente vengono prodotti 87 milioni di barili, di questi circa 11 sono dell’Arabia Saudita, e solo 32 provengono dall’OPEC. Puoi quindi capire quanto l’Arabia sia poco influente, e come lo sia anche l’OPEC, che produce meno della metà.

Non solo: all’interno dell’OPEC ci sono diverse correnti. Si va dal Venezuela, che vuole spingere al rialzo i prezzi del greggio per usarlo come arma politica e per “mungere la mucca occidentale”, prima che passi a forme alternative, all’Arabia Saudita, che invece guarda al lungo periodo (ovvero a tenere i prezzi non troppo alti in modo da non far finire la dipendenza dal greggio dell’occidente). Inoltre chi va su, prima o poi deve tornare giù: nei due shock petroliferi precedenti, dopo aver raggiunto il massimo, il prezzo del petrolio crollò letteralmente. I guadagni dello shock furono bruciati, e i sauditi (ad esempio) non hanno potuto reinvestirli.

E ancora: nel mondo petrolifero ci sono due potenze destabilizzanti, ovvero Cina e Russia. In Russia, Gazprom vuole la crescita del prezzo per potere investire in tecnologia (le strutture Gazprom sono per la gran parte le opere faraoniche costruite dall’ENI negli anni Sessanta, inoltre più sale il prezzo del petrolio, più sarà redditizio estrarre anche dai pozzi più poveri, al contrario di quanto hai detto – tanto per dire, leggevo sul Sole 24 ore che sono stati riaperti di recente in Pennsylvania dei pozzi chiusi da decenni).

Poi c’è la Cina: in questo Paese il problema è monetario. In Cina da molto tempo si tende ad avere un renminbi (la moneta locale) fortemente sottovalutato grazie a dei bassi tassi di interesse. La Cina fa questo perché in questo modo aumentano gli investimenti, e un aumento degli investimenti farà salire la domanda di petrolio e quindi farà salire il prezzo. Solitamente, questo si traduce in inflazione, ma la Cina esporta gran parte dei suoi prodotti all’estero, scaricando su di noi il costo dell’inflazione. Per questo può continuare a tenere una moneta insolitamente bassa. Fortunatamente anche in Cina si cominciano a sentire gli effetti dell’inflazione, ed è plausibile credere che aumenterà i tassi di interesse al fine di raffreddare i prezzi.

Poi, ovviamente, c’è il problema della speculazione, che esiste, ma che non è nella forma descritta dal (sic) ministro dell’Economia Tremonti: semplicemente, gli investitori, invece di buttarsi su titoli “tradizionali”, preferiscono investire nelle commodities, il cui mercato è quindi insolitamente liquido.

Quanto ai legami con il prezzo del pane, c’è da considerare il fatto che l’aumento del greggio fa aumentare la domanda dei suoi sostituti, per quanto imperfetti, fra i quali il bioetanolo, che a sua volta fa diminuire l’offerta di prodotti agricoli destinati all’alimentazione.

Adesso mi voglio focalizzare sulla Cina. Durante una chiacchierata ad un pranzo di lavoro avevo ribadito che parte delle distorsioni e della crisi che ci attanaglia, è dovuta alla presenza di questo gigante asiatico, che scarica la propria inflazione sui Paesi esteri. E avevo previsto (dopo aver letto economisti più esperti di me, ovviamente) che dopo le Olimpiadi, spenti i riflettori su Pechino, il governo cinese avrebbe messo in campo delle misure di politica economica in netta controtendenza con il passato.

Oggi me lo ritrovo confermato: il vicepremier cinese ha chiesto (e, si auspica, otterrà) delle misure di sostegno alla domanda interna. I motivi sono semplici: fino ad ora la Cina ha esportato gran parte del suo prodotto. Con la recessione i consumi calano e caleranno, e la Cina si ritroverebbe con un’offerta in eccesso, il che rallenterebbe drasticamente la crescita. Non potendo vendere all’estero, la Cina deve per forza vendere all’interno, ovvero aumentare la domanda.

Questo comporta una serie di conseguenze. La prima è l’inflazione: l’aumento della domanda provoca un naturale rialzo dei prezzi, e quindi inflazione, appunto. Fino ad ora la Cina ha sempre dichiarato che il contenimento dell’inflazione era uno dei suoi obiettivi prioritari, ma aveva sostenuto la crescita sottovalutando il renminbi e scaricando l’inflazione all’estero. Ora che questo non è possibile come un tempo, la Cina dovrà scegliere se sopportare l’inflazione e sostenere la crescita o viceversa. Da come la vedo io, la Cina sarà abile a tenersi in mezzo a questi due obiettivi, il renminbi sarà un po’ più libero di rivalutarsi.

La Cina, dunque, dovrebbe crescere più lentamente (non più a due cifre come è successo fino ad ora, insomma 🙂 ), e questo dovrebbe trattenere la domanda di petrolio e quindi farne scendere il prezzo. Il prezzo del petrolio, infatti, è sceso poiché gli investitori hanno ritenuto che le domanda calerà (e la Cina è uno dei motivi) e quindi ora si gioca al ribasso. Tutto spiegabilissimo, senza le scemenze di cui ha parlato Tremonti.

Il raffreddamento del petrolio dovrebbe riuscire ad evitare i timori di stagflazione, e riportare il tutto sui binari di una meno drammatica recessione. Di certo il nostro Paese non può perdere questo treno, e deve uscire dalla recessione prima che la Cina riparta, riportando una forte inflazione in Europa. Spero che Tremonti se ne accorga, e che il governo si applichi non più per salvare il premier, ma per evitare che delle multe miliardarie affondino definitivamente il nostro Paese.

Anche se i primi interventi non lasciano ben sperare. Speriamo non ci vada troppo male…

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