Alitalia: una storia italiana

Post in due parti: nella prima c’è la storia di Alitalia, nella seconda le mie considerazioni, proiettate sulla situazione politica, sociale, economica e culturale italiana (considerazioni brevi, che spero di svolgere in un secondo post)

Il caso Alitalia

Nascita: Il 5 maggio 1947 l’Alitalia compie il suo primo volo, da Roma a Catania. Nasce una grande impresa, che oggi conta più di ventimila dipendenti. Ma Alitalia nasce già zoppa: come molte delle grandi imprese italiane, è posseduta dall’IRI, il che vuol dire che gode dell’assistenza dello Stato. Ma l’azienda non parte male: ha un buon presidente (Nicolò Carandini, liberale con eccellenti relazioni internazionali) e un amministratore delegato che ci capisce di aerei (Bruno Velani, ingegnere aeronautico e pilota militare).

Apice: In dieci anni Alitalia è amministrata abbastanza decentemente da permettere un grande sviluppo, che porterà gli aerei battenti la sua bandiera in tutto il mondo e a prezzi tutto sommato economici. Negli anni Sessanta raggiunge il milione di passeggeri. Nel 1968 è il terzo vettore europeo e il settimo nel mondo. Fattura 140 miliardi di lire, ha 10mila dipendenti e vola in 70 Paesi del mondo.

Ma all’alba degli anni Settanta, quei signori che ho citato sopra (il Presidente e l’AD) devono lasciare Alitalia, dopo vent’anni di grande servizio. Caso vuole che proprio in quel periodo comincia la deregolamentazione del mercato dell’aerotrasporto, l’inizio della concorrenza e la fine degli aiuti pubbllici. E Alitalia è ancora azienda pubblica, non ha alleati e, a causa della fine degli aiuti di Stato, ha le casse vuote.

La situazione al’estero e lo scandalo italiano: Ma perché questi problemi non accadono anche ad altre compagnie europee? Citerò un episodio: Alitalia era la compagnia al servizio dei politici. Se un parlamentare, poniamo, siciliano doveva essere a Roma per le otto, la sera prima telefonava in Alitalia e diceva che il giorno dopo gli sarebbe servito un volo alle sei: passeggeri, lui e i suoi tre collaboratori. Alitalia, azienda pubblica, in mano allo Stato, doveva farlo. Altrove, gli avrebbero riso in faccia, ma con Alitalia non è così. Spreco di denaro pubblico, visto che il volo l’hanno pagato i contribuenti. Ma non solo.

Il problema è anche e soprattutto strategico: mentre altrove si privatizza, si creano grandi piani industriali, in Italia o si fa troppo poco o si fa troppo. Gli amministratori sono manager professionisti, ma avendo studiato all’estero non sono in grado di dare ad Alitalia quello che l’azienda necessita, anche a causa di veti politici (Alitalia è ancora al 100% in mano al Tesoro).

Prime crisi, primi interventi: Nel 1996 arriva Cempella, che trova tremila miliardi di debiti, dieci anni di perdite e tensioni con i dipendenti. La situazione è critica, ma è ancora risolvibile. L’importante è che Alitalia cessi di essere azienda pubblica, e impari a convivere con il mercato (che in Italia non esisteva e non ancora esiste). Cempella compie un’opera tutto sommato encomiabile: tagli agli stipendi, e ingresso dei dipendenti nell’azionariato. Una manovra che è usata ancor oggi in Paesi più avanzati per assicurarsi la fedeltà dei dipendenti, consci che i loro guadagni dipendono dal loro lavoro. Ma l’Italia non è pronta per una simile svolta epocale come questa, e infatti la CGIL di Sergio Cofferati mette il veto, e l’opera di Cempella è già monca.

La prima (timida) privatizzazione: Ma non tutto è perduto: nel 1996 il governo di Romano Prodi (che a lungo è stato a capo dell’IRI) vara una timida privatizzazione. Il 21% viene diviso fra i dipendenti,mentre il 15% finisce sul mercato. Lo Stato è ancora saldamente al comando, ma l’azione ha un successo formidabile, ma viene commesso il primo errore: non completare la privatizzazione. Se l’avesse fatto in base al successo della prima tranche, se avesse continuato a privatizzare come era già avvenuto all’estero, lo Stato avrebbe incamerato quattrini e non saremmo oggi costretti a privatizzare svendendo.

L’azione dell’Unione Europea e il sonno del governo italiano: Ma Alitalia ha ancora tremila miliardi di debiti, e Cempella chiede all’azionista di ricapitalizzare. Ma l’azionista è lo Stato, e il piano va approvato dall’Unione Europea. A causa anche della pigrizia del Governo italiano, la UE assegna linee guida per la ricapitalizzazione: non possono servire a ripianare i debiti, ma solo per investire. Come farebbe un investitore privato. L’opposizione del governo avrebbe potuto cambiare la storia, visto che azioni simili erano state portate avanti (e vinte) da Air France e Iberia, ma Alitalia è lasciata sola. L’azienda fa ricorso e lo vince. Ma è ormai la fine del 2000, ed è troppo tardi.

Malpensa 2000: Ma la UE non aveva bocciato il piano solo per le condizioni industriali, ma per tutto un atteggiamento del governo in materia di trasporto aereo. Il problema è anche Malpensa 2000: la SEA vuole costruire un grande hub, concorrente di Francoforte e Parigi. L’Europa è entusiasta, ed eroga 400 miliardi di lire da ripagare in 15 anni per la costruzione dell’aeroporto. Ma la colpa è ancora una volta del governo: fra le condizioni imposte dall’Europa c’è la costruzione delle infrastrutture per permettere l’accesso a Malpensa. Per l’Italia è una grandissima occasione, visto che un hub porta ricchezza e prosperità: la Bocconi ha stimato 150mila posti di lavoro e dieci miliardi di euro di valore. Ma l’occasione è clamorosamente perduta.

L’esplosione delle low cost: Intanto nascono le low cost, che cominciano ad offrire, a prezzi irrisori, viaggi a media e corta percorrenza. Mentre le altre compagnie di bandiera comprendono di non poter competere senza abbassare la qualità (cosa impossibile per una compagnia di punta), puntano ai voli a lunga percorrenza, dove le low cost non possono competere. E Alitalia che fa? Sbaglia tutto e punta a competere con le low cost sul breve e medio (non dimentichiamo che ci sono ancora i politici che, come tanto tempo fa, volano -gratis- in prima classe con Alitalia, e che non possono ridursi a volare con le scomodissime -per loro- low cost). Risultato: altre perdite. E quando Alitalia si accorge dell’errore, il treno dei voli a lunga percorrenza è perduto.

Malpensa 2000, il governo dorme ancora: La colpa? Ancora di un governo incapace: Prodi, che è sempre stato presidente dell’IRI, è per questo in grado di manipolare il management di Alitalia, e commette la prima sciocchezza, ovvero Alitalia chiederà un aumento degli slot su Linate, invece di prenotare quelli su Malpensa. Poi ancora il governo “dimentica” di costruire le infrastrutture necessarie, e la costruzione dello hub va a rilento. Le compagnie estere rifiutano di trasferirsi da Linate a Malpensa, e hanno ragione: chi vorrebbe andare in un aeroporto nel deserto? Gli unici a astenersi sono, guarda caso, Air France e KLM.

L’alleanza (tentata) con KLM: E proprio con KLM Alitalia decide di aprire le trattative: Cempella vuole allearsi con gli olandesi, e questo porterebbe alla costituzione della prima compagnia aerea europea. Un grande risultato, un grande accordo, che offre la possibilità, per il governo, di uscire dalla compagnia, far quattrini e lasciare che sia Alitalia ad autoregolamentarsi per essere un’azienda sana e forte. Ma il governo compie ancora passi falsi, stavolta anche con la Giunta del Comune di Milano. Malpensa 2000, pilastro dell’accordo con KLM, è sempre più lontano, pur essendoci un accordo sulla carta che definire favoloso è dire poco.

Cronaca di una guerra intestina: E nel 1998 cade il governo Prodi e il nuovo governo D’Alema ne combina di cotte e di crude. Uno scontro fra il ministro dei trasporti Treu e quello dell’ambiente Ronchi stronca la partenza di Malpensa 2000, mentre il Governo non si oppone alle decisione dell’Unione Europea, evidentemente pressata dagli altri governi, tedeschi e inglesi in primis. Un giorno prima del trasferimento da Linate a Malpensa, Treu blocca tutto. L’inizio della fine.

KLM se ne va: KLM decide che ne ha piene le scatole dell’immobilismo del Palazzo italiano, tanto che preferisce pagare una penale di 250 milioni di euro e rischiare di fallire, piuttosto che avere a che fare con gente del genere! Troppe ingerenze, troppe guerre fratricide interne a tutti i livelli. Il 20 aprile del 1999 KLM se ne va e finisce fra le braccia di Air France, mentre Alitalia è sola e deve gestire tre hub, Fiumicino, Linate e ovviamente Malpensa.

L’11 settembre e le nuove crisi: Arriva poi l’11 settembre 2001 e la crisi per tutte le compagnie aeree. Cempella, dopo cinque anni di amministrazione e di successi intravisti e non conseguiti, lascia Alitalia. Al suo posto, Giuliano Amato chiama Francesco Mengozzi, manager professionista, ma che non è addentro al sistema dell’aerotrasporto. Completamente inadatto all’incarico, lascia dopo mille giorni, dopo avere ridimensionato l’azienda per far fronte alle perdite. Ma non è sufficiente.

“Dovete privatizzare!”: Il nuovo capo del governo, Silvio Berlusconi, con lo stile che gli si confà, chiama esperti americani, i quali sono indecisi se ridere o disperarsi: in poche parole, dicono al governo italiano di essere un ingenuo frescone per non dire totale babbeo. Una sola cosa da fare, prima di subito. Privatizzare. Ancora una volta, dopo tanti anni, la parola d’ordine è sempre la stessa: privatizzare. Mentre all’estero i governi aiutano le compagnie aeree in modo discreto, se le aiutano, in Italia Alitalia è l’azienda al servizio delle forze politiche, e per questo non può essere privatizzata. Le forze politiche dimenticano che Alitalia deve essere al servizio del pubblico. I politici dimenticano ancora una volta i cittadini.

Promesse non mantenute: Air France, unica altra azienda ancora in mano allo Stato, oltre Alitalia, viene privatizzata nel 2003 e si allea con KLM. Il governo Berlusconi annuncia a sua volta la privatizzazione, ma non dice né come né quando. I sindacati, altra delle numerose corporazioni medievali presenti in Italia, si oppone, e Berlusconi si arrende. Alitalia rimane in mano allo Stato, e va così alla giornata.

L’era Cimoli, gli stipendi scandalo e una seconda (timida) privatizzazione: Il 6 maggio 2003 Berlusconi chiama Giancarlo Cimoli: l’azienda perde, in quel momento, un milione di euro al giorno. Cimoli presenta un nuovo piano di tagli, ma contemporaneamente si autoaumenta lo stipendio fino a tre milioni di euro all’anno, sei volte lo stipendio del suo omologo di Air France, azienda che però non è in profondo rosso come Alitalia. In compenso, Alitalia dimentica di rinnovare la concessione per i voli da e verso la Sardegna, che finiscono ad Air One e Meridiana. Il Tesoro privatizza timidamente ancora un po’, e scende al 49%, abbastanza per mantenere ancora il controllo, troppo per salvare Alitalia. Dopo aver racimolato dieci milioni di euro di stipendio, nel 2006 Cimoli se ne va, pretendendo una buonuscita di otto milioni, e il governo Berlusconi lo permette.

Dal buco nero non si può più uscire: Nel 2004 Air France e KLM si fondono, e affermano di essere ben lieti di unirsi ad Alitalia in futuro, ma prima essa deve essere risanata e privatizzata. Alitalia subisce ancora tagli. Il governo decide di vendere: Alitalia è perduta. Ma il peggio non è ancora finito. Dopo un primo tentativo di vendita, condotto dal nuovo governo Prodi, i potenziali acquirenti comprendono che l’invito a proporre del governo punta troppo in alto per il reale valore dell’azienda, e lasciano. La strada dell’asta viene abbandonata, e si punta alla vendita trattando con un solo partner. Viene scelto Air France-KLM, insieme a Lehman Brothers, sotto la guida di Mengozzi (ve lo ricordate?). Ma ancora una volta, cade il governo. Intanto Alitalia decide di abbandonare Malpensa dall’estate 2008: un fulmine a ciel sereno, che non permette alla SEA, che gestisce l’aeroporto, di correre ai ripari. Malpensa rischia la chiusura, e l’economia del Nord, in un momento di crisi come questo, rischia l’implosione. La SEA ricorre contro Malpensa e chiede ad Alitalia un risarcimento di 1,2 miliardi di euro.

Conclusioni

La tragedia di Alitalia è il simbolo di una storia, quella italiana, ormai fuori dal mondo. Mentre in tutto l’Occidente nasce l’economia di mercato, in Italia le corporazioni di modello medioevale lo fermano. Mentre in Occidente si lascia che siano i privati a offrire determinati servizi (ad esempio questo), magari con incentivi di Stato, in Italia lo Stato, invece di garantire semplicemente diritti e sicurezza, si comporta in modo paternalistico, nazionalizzando e mai privatizzando. Le aziende chiave del Paese non vengono assegnate in base alle competenze, come avverrebbe in regime di mercato, ma lottizzate, in modo da soddisfare questo o quel partito. La storia di Alitalia ne mostra le conseguenze: manager incapaci di fronteggiare la crisi, per incapacità propria o per veti politici, l’azienda che si arrende perché, a lungo protetta dallo Stato dalla concorrenza, con la deregulation e il progresso si ritrova senza gli anticorpi necessari per fronteggiare la concorrenza.

Le corporazioni italiane, da Confindustria ai sindacati, dai notai ai farmacisti, i governi, di destra e sinistra, decisamente fuori da un mondo cambiato rispetto ai politici che li guidano, ancora fermi agli anni Settanta, oltre a vere e proprie demolizioni dello Stato di diritto grazie a leggi a favore di questa o quella persona, bloccano lo sviluppo di una solida economia di mercato.

In Italia sono ancora presenti monopoli legali o di fatto, legati a quell’azienda o a quella corporazione, privilegi, non solo all’interno della classe politica, e una giustizia troppo lenta per un processo economico che oggi è velocissimo. Tutte queste caratteristiche, unite all’atteggiamento paternalistico dello Stato, erano proprie dello Stato assoluto, e l’economia di mercato non poteva svilupparsi in un ambiente simile, portando alla nascita dello Stato liberale.

L’Italia è arretrata, governata male da persone completamente lontane dalle reali necessità del Paese, che oggi è immerso in una realtà completamente diversa.

A me tutto questo ricorda drammaticamente qualcosa, senza ovviamente dimenticare esempi più recenti di malgoverno

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